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Nuove case popolari e stop al consumo di territorio, non c’è contraddizione

a cura di in data 11 Novembre 2012 – 10:18

La Spezia dal Monte Castellana (2010) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia – 11 Novembre 2012 – Finalmente ce l’ho fatta ad andare alle Pianazze, per vedere da vicino la conclusione dei lavori di riqualificazione urbana del quartiere. Non ero riuscito a partecipare all’inaugurazione, ma gli amici Gianfranco Ratti e Stefano Pollina di Arte (l’azienda che si occupa di edilizia residenziale pubblica), con i quali, da Sindaco, avevo a lungo collaborato al progetto, mi hanno volentieri accompagnato. Non c’è dubbio, il cambiamento è stato imponente: la vecchia “Sciangai” di un tempo ha radicalmente cambiato volto. I grandi edifici di edilizia popolare degli anni ’60, brutti e degradati, sono stati oggetto di restauro e completamente trasformati, anche usando impiantistica e tecnologia che garantiscono il risparmio energetico; mentre uno di loro è stato abbattuto per far posto alla grande piazza, sulla quale tra poco si affaccerà un bar. In tutto 108 alloggi ristrutturati, più 12 costruiti in un’area attigua nel Comune di Arcola. Nei fondi ci sono alcuni negozi; i parcheggi sono interrati, sotto la piazza. Il cambiamento, cominciato già nei primi anni ’90 con la realizzazione del parco, è proseguito con queste opere, inserite nel “Contratto di Quartiere”. Il progetto, presentato da Comune e Arte, vinse il bando nazionale del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti; in tal modo fu finanziato con risorse non solo di Comune e Regione ma anche e soprattutto del Ministero, per un totale di 16 milioni di euro. E’ stata una bellissima esperienza, come quelle del “Piano di Recupero Urbano” del Favaro e del “Contratto di Quartiere” della zona di piazza Brin, i cui lavori sono ancora in corso. Esempi di riqualificazione urbana, di attenzione al tema dell’edilizia sociale, di partecipazione popolare: ricordo, alle Pianazze, i tantissimi incontri con i cittadini, e il loro coinvolgimento grazie all’impegno della Circoscrizione e del Sunia. 

Di tutto questo, purtroppo, non si parla più: lo Stato è scomparso da anni. Eppure i temi della riqualificazione delle periferie e del rilancio dell’edilizia sociale costituiscono un’emergenza. Ne ho scritto, un mese fa, su questa rubrica (“Autunno rovente anche per l’emergenza casa”) e più ampiamente in “Ripartiamo dalla polis”. Riporto i dati più recenti della condizione abitativa in Italia, perché sono davvero allarmanti. Negli ultimi quarant’anni l’aumento dello stock edilizio è stato rilevante: gli alloggi sono più di 27 milioni, per 22 milioni di famiglie, mentre le stanze sono 110 milioni, per 58 milioni di persone. Ma il diritto alla casa non si può affidare al mercato, che è per sua natura discriminante: richiede una politica sociale dello Stato, che è invece, come dicevo, scomparsa. La crescita delle diseguaglianze sociali, unitamente alla liberalizzazione degli affitti e al loro aumento generalizzato, ha reso drammatico il problema della casa. Alla “normale” fascia di popolazione che vive in condizione di povertà assoluta (quasi un milione di famiglie, pari al 5%), si è aggiunta una fascia ben più ampia in condizioni di povertà relativa (3 milioni di famiglie, pari al 15%), che non è in grado di acquistare una casa, e che spesso non riesce a pagare l’affitto dell’alloggio in cui vive. Anche perché quel modesto aiuto costituito dai contributi per l’affitto alle fasce più povere è stato praticamente azzerato. Questo insieme di situazioni ha portato a un fabbisogno di un milione di alloggi di edilizia sociale da destinare in grande prevalenza all’affitto. Oggi i ceti a medio reddito, che nel passato approdavano alla proprietà della casa con mutui a tassi sostenibili, vedono infatti drasticamente ridotta questa possibilità. I ceti medi, insomma, sono sempre più ceti poveri. Di fronte a tutto ciò le risposte dello Stato sono state radicalmente insufficienti. Abbiamo un patrimonio residenziale pubblico ai livelli più bassi d’Europa, fermo al 4,5% (in Olanda è del 34,6%). Negli anni ’90 fu soppresso il fondo Gescal (Gestione case lavoratori) e le competenze furono trasferite alle Regioni, senza però trasferire loro anche le necessarie risorse. Le Regioni, di conseguenza, si sono limitate in questi anni a garantire quote minime di finanziamenti. Lo Stato si è impegnato solamente nell’attività di sperimentazione finalizzata alla riqualificazione urbana degli insediamenti di edilizia sociale esistente (i ricordati “Piani di Recupero Urbano” e “Contratti di Quartiere”, che alla Spezia abbiamo saputo utilizzare assai bene). Ma questi strumenti non esistono più. Il Governo Prodi stanziò una cifra pressoché simbolica nel 2007 (550 milioni) per finanziare piani operativi regionali per il recupero e la realizzazione di 12.000 alloggi di edilizia sociale. Ma il Governo Berlusconi annullò questa misura per varare un fantomatico “Piano casa” che non ha portato ad alcun risultato. E il Governo Monti? Ha appena varato il “Piano Città”: ma, come ho scritto un mese fa, gli stanziamenti sono irrisori. Tant’è che il Governo ha rinviato tutto: i Comuni hanno presentato 425 proposte di riqualificazione, per i quali servirebbero 5 miliardi. Sul piatto ministeriale ci sono 245 milioni, più fondi del Ministero dell’Istruzione per l’edilizia scolastica e crediti della Cassa Depositi e Prestiti: in ogni caso poca cosa rispetto alle esigenze.
Che fare, allora, in una situazione così esplosiva? La domanda non è semplice: anche perché non si può pensare di edificare nuove case, occupando ulteriori porzioni di suolo libero. Il consumo di territorio ha assunto in Italia un’estensione devastante: soltanto negli ultimi 15 anni circa un milione di ettari, un tempo agricoli, sono stati cementificati. Qualche mese fa il Sole 24 Ore ha dedicato un preoccupato articolo a una ricerca svolta dall’Università di Milano, da cui emergeva che se tutte le previsioni edificatorie conquistate con le deroghe imposte dall’economia neoliberista si concretizzassero, città come Brescia o Bergamo avrebbero al 2020 una quantità di case invendute pari alla popolazione residente. Città fantasma che nessuno abiterà mai! Il Governo Monti, da questo punto di vista, ha segnato una data storica: il Ministro per le Politiche agricole Mario Catania ha infatti portato all’approvazione del Consiglio dei Ministri un disegno di legge sullo “stop al consumo di territorio”, un provvedimento di straordinaria importanza. I meriti del Governo finiscono qui, perché non c’è stata la decretazione d’urgenza (come per l’aumento dell’età pensionabile o la riduzione dei diritti dei lavoratori), ma solo la presentazione di un disegno di legge, che non sarà certamente approvato in questa legislatura. Tuttavia il tema è stato posto, e segnerà il dibattito sulle città nei prossimi anni.

La Palmaria (2010) (foto Giorgio Pagano)

Proporre una politica urbanistica ispirata al principio del risparmio di suolo e alla “crescita zero” non significa però -ecco la questione- un blocco indiscriminato del comparto edilizio. Dobbiamo guardare un po’ più da vicino la tipologia e la qualità del patrimonio esistente. Una parte, la maggiore, è in buono stato di conservazione, anche se è totalmente inadeguata sotto il profilo del risparmio energetico. Un’altra parte è invece degradata e abbandonata. Bisogna dunque “costruire sul costruito”, cioè recuperare il già edificato e se necessario demolirlo e ricostruirlo ex novo, proprio come si è fatto alla Pianazze. O come, grazie al “Contratto di Quartiere” dell’Umbertino, si farà con l’edificio dell’ex liceo scientifico di via Venezia: è stato abbattuto, e al suo posto sorgeranno 36 alloggi per studenti e giovani coppie.
Deve essere chiaro, però, il punto di fondo: una politica di rigenerazione urbana che punti a una consistente offerta di edilizia residenziale pubblica, sia come azione di sostegno del fabbisogno abitativo delle famiglie a basso reddito e delle giovani generazioni, sia come leva di rilancio del settore delle costruzioni (”Fermare l’emorragia nell’occupazione”, hanno scritto in questi giorni i sindacati spezzini del settore), ha bisogno di attenzione dei Comuni ma anche e soprattutto di risorse del Governo nazionale. Le famiglie spezzine in condizioni di precarietà abitativa sono circa 2000. 1125 famiglie non usufruiscono più del contributo del fondo nazionale per il sostegno all’affitto. Ogni anno ci sono 340 sfratti, non solo per finita locazione ma per morosità dovuta a povertà. E’ una polveriera: la Spagna, con i suoi 350.000 sfrattati e l’epidemia dei suicidi, e la Grecia, in cui si legge dappertutto “Si affitta” e “Si vende” senza che nessuno affitti o compri a causa della grave sofferenza sociale, fanno arrivare un allarme anche alle nostre orecchie. In questo quadro c’è, anche a Spezia, una porzione non del tutto irrilevante del tessuto urbano che è vetusta e degradata. E si liberano presidi come scuole, strutture sanitarie, edifici militari. Solo tra le case popolari esistenti ci sono almeno 60 alloggi non assegnati perché Arte non ha le risorse per renderli agibili: il Governo non utilizza 70 milioni stanziati a questo fine, che andrebbero immediatamente sbloccati. Anche i progetti di housing sociale presentati dal Comune per il finanziamento del “Piano Città”, con il previsto apporto di Fondazione Carispezia, non sembrano avere, per i motivi detti, molte possibilità di successo. E’ vero, Arte sta comunque operando: con i finanziamenti regionali per il social housing ha realizzato 12 alloggi al Favaro e realizzerà 7 alloggi a San Bartolomeo e 15 in via Foscolo. Sono interventi importanti, ma chiaramente insufficienti. La verità è che Arte, Fondazione Carispezia e imprese private, se supportate da un consistente sforzo finanziario nazionale, potrebbero diventare protagoniste della rigenerazione urbana di tutta la città. Serve che una parte della fiscalità generale sia destinata all’edilizia sociale: imposta patrimoniale e lotta all’elusione e all’evasione sono sempre più urgenti. Ma serve anche una riduzione selettiva della spesa pubblica che combatta gli sprechi. Questa settimana cito altri due interventi possibili e auspicabili. Il primo me l’ha segnalato Piero Donati: l’abolizione delle Direzioni Regionali del Ministero dei Beni Culturali, nate nel 2004 per volere della destra e poi mantenute. Il Direttore Regionale è nominato dal Consiglio dei Ministri e quindi è un rappresentante dell’esecutivo; il suo compito è quello di attuare le direttive del Governo. Ma l’unico risultato è l’aver sottratto alle preesistenti Soprintendenze Regionali buona parte delle già risicate risorse di cui disponevano. Il secondo l’ho ricavato da un’inchiesta di Repubblica sui privilegi della “casta” dei 425 generali e ammiragli di Esercito, Marina e Aeronautica (sono 900 negli Usa, ma guidano uomini che sono dieci volte più numerosi). In Italia ne basterebbero125. Ma nessuno tocca il loro numero, né i loro stipendi, pensioni e benefit, mentre si taglia il personale civile e militare della Difesa di 8.571 unità.
Perché la “casta” dei generali e degli ammiragli non sventola mai bandiera bianca?

lucidellacitta@gmail.com

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