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L’Autunno caldo degli operai

a cura di in data 16 Dicembre 2019 – 09:49
Pietrasanta, Piazza Duomo, un'opera di Jan Fabre (2011) (foto Giorgio Pagano)

Pietrasanta, Piazza Duomo, un’opera di Jan Fabre
(2011) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 8 dicembre 2019 – Cinquant’anni fa eravamo al culmine dell’Autunno caldo: la stagione delle grandi lotte operaie, simboleggiata dalla vertenza per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. La classe operaia spezzina ne fu protagonista.
La ribellione nacque da una situazione insostenibile: lo sviluppo economico del decennio precedente era stato ottenuto non solo dal bassissimo costo della forza lavoro, ma anche da un impasto di modernizzazione fordista-taylorista e di arcaismo da caserma: all’OTO Melara come alla Termomeccanica, alla San Giorgio come al Cantiere Ansaldo Muggiano, calcoli ingegneristici applicati ai tempi di produzione si sposavano con un comando brutale affidato all’onnipotenza ed alla prepotenza dei capi. L’avvelenamento, soprattutto alla Ceramica Vaccari, alla Fonderia Pertusola, in tutta la cantieristica navale, era letale.
L’anno degli operai fu un’insurrezione contro tutto questo: contro i ritmi massacranti, la disciplina da Stato di polizia, la nocività incontrollata, le paghe da fame.
La ricerca sugli anni Sessanta alla Spezia, a cui sto lavorando con Maria Cristina Mirabello, ha rivelato, attraverso le testimonianze ed i documenti, una realtà impressionante da tanto che era insopportabile: i lavoratori “non ce la facevano più”. Da qui il carattere davvero impetuoso della loro lotta.
La piattaforma contrattuale dei metalmeccanici conteneva rivendicazioni salariali molto consistenti, la richiesta di quattro ore di riduzione dell’orario di lavoro, e si concentrava poi sui diritti: controllo delle condizioni di lavoro, riduzione delle cause di nocività e di insicurezza, tutela della salute, limitazione del lavoro straordinario, abolizione di ogni forma di discriminazione in ragione dell’età, del sesso, della malattia o della partecipazione allo sciopero, diritto all’assemblea…
Le trattative si interruppero subito, a settembre. Seguirono tre mesi di lotte durissime, con scioperi generali ma anche fabbrica per fabbrica, reparto per reparto, spesso “a singhiozzo”, cioè un’ora sì e un’ora no…
La manifestazione più bella e più grande ci fu il 28 novembre a Roma: 100 mila metalmeccanici sfilarono per la capitale orgogliosi di ritrovarsi assieme.
C’era stata una campagna di stampa: a Roma c’era tensione, c’era paura di incidenti. Ed invece fu una manifestazione gioiosa, con i canti e gli slogan nei dialetti delle tante regioni italiane. I metalmeccanici spezzini furono tra i protagonisti, con i bidoni usati come tamburi e con il grido operaio di allora, “La bogia”.
Alla fine la Confindustria cedette, il nuovo contratto fu firmato il 21 dicembre.
Fu una significativa vittoria per il “nuovo” sindacato, che aveva recepito la spinta operaia di base per il rinnovamento e l’unità sindacale.
C’era un legame di quella lotta operaia con la lotta del movimento studentesco del 1968. Certamente l’Autunno caldo fu il frutto di una lunga incubazione di lotte operaie, che erano riprese all’inizio degli anni sessanta. Aveva quindi radici lontane. Ma questa incubazione fu indissociabile dall’influsso di idee critiche del movimento studentesco; dal dialogo, e dal conflitto, del movimento operaio con questo influsso di idee critiche. Le quali avevano anch’esse radici lontane, negli anni Sessanta. Ecco perché una ricerca, come la nostra, che si proponeva inizialmente di indagare sul solo biennio 1968-1969, non poteva che trasformarsi in una ricerca su tutti gli anni Sessanta.

Pietrasanta, Piazza Duomo, un musicista di strada e un opera di Jan Fabre (2011) (foto Giorgio Pagano)

Pietrasanta, Piazza Duomo, un musicista di strada e un’opera di Jan Fabre
(2011) (foto Giorgio Pagano)

GLI OPERAI ESISTONO ANCORA
Allora la classe operaia rappresentava il 29,8% della popolazione attiva, oggi il 22,6%. Il lavoro salariato operaio esiste ancora: lo dimostrano le vicende Ilva e Whirpool, solo per citare le più significative. Ma molte delle conquiste di allora non ci sono più: basti pensare alla libertà di licenziare. La questione è che gli operai, oggi, sono quasi invisibili. Hanno meno coscienza di sé, e non hanno più, come un tempo, chi li rappresenta. Cinquant’anni fa avevano un prestigio sociale: oggi, invece, regna il disprezzo per il lavoro manuale, l’esaltazione acritica del lavoro immateriale. Ma nessuna economia avanzata potrà mai fare a meno del lavoro operaio. Sconfitti e dimenticati, frammentati e precarizzati, gli operai esistono ancora. Ciò che non esiste più è la sinistra, che la rappresentava. La sinistra potrà forse rinascere, in forme radicalmente nuove, solo se saprà coniugare la battaglia ambientalista -perché abbiamo scoperto, rispetto a cinquant’anni fa, che non c’è solo l’avvelenamento dell’operaio ma anche quello della natura e della Madre terra- con la battaglia sociale per l’eguaglianza e per ridare al lavoro la dignità perduta. L’operaismo era sbagliato allora, figuriamoci oggi: la battaglia per costruire un altro mondo possibile deve essere una battaglia etica, che metta al centro l’ambiente e tutti i diritti, come quello al sapere ed alla cultura. Ma deve avere una radice sociale: una radice che non può che essere tra i più deboli, tra chi sta in basso, tra gli operai che esistono ancora.

Post scriptum: le fotografie di oggi sono di un’opera dell’artista belga Jan Fabre, esposta in Piazza Duomo a Pietrasanta nel 2011.

lucidellacitta2011@gmail.com

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