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La strada è la vita

a cura di in data 11 Aprile 2022 – 20:58

New York, veduta di Manhattan dall’Empire State Building
(2008) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 13 marzo 2022

JACK KEROUAC E LA BEAT GENERATION
Jack Kerouac nacque cento anni fa, il 12 marzo 1922, a Lowell, Massachussets, una piccola cittadina industriale. I genitori erano di estrazione operaia. La tragedia della famiglia fu la morte del fratello più grande di Jack, Gerard. La madre visse nella memoria del figlio perduto, il padre divenne alcolizzato. Jack ebbe un’adolescenza difficile, poi incontrò all’Upper West Side di New York il gruppo di poeti che fu chiamato Beat Generation, e la sua vita cambiò. Kerouac, William Borroughs, Allen Ginsberg e altri cominciarono a scambiarsi sogni, progetti, affetti. La lapide commemorativa della tomba di Jack a Lowell porta incisa la firma e le parole “The Road is Life” (La Strada è la Vita). La gente che va a rendergli omaggio lascia sigarette, bottiglie di whisky, “ma soprattutto dediche: raccontano perché Kerouac gli ha cambiato la vita”, dice a Lowell Bill Walsh, insegnante e storico.
La Beat Generation prese avvio il 7 ottobre 1955 a San Francisco, con un reading (lettura pubblica) in cui per la prima volta Ginsberg lesse “Howl” (Urlo), la poesia con il celebre verso iniziale: “Ho visto le migliori menti della mia generazione…”. Un verso che, come spiega Francesco Guccini in un’intervista pubblicata in “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, lo ispirò in “Dio è morto”. “Howl” è celebrazione della pazzia e del desiderio sessuale, è ribellione alla società ossessionata dalla ricchezza e insensibile alla bellezza e all’intelligenza critica, è inno all’amicizia tra intellettuali “alternativi”. Nella prima performance pubblica di Ginsberg c’era anche Kerouac, mezzo ubriaco, che a ogni pausa lo incoraggiava ad andare avanti, gridando “Go! Go! Go!”.
Il successo di “Howl” si incrociò con quello di “On the Road” (Sulla strada”), il romanzo di Kerouac che uscì il 5 settembre 1957. Kerouac aveva già scritto un romanzo nel 1950, era una grande promessa negli ambienti letterari di New York, ma fuggì. Disse al critico letterario John Clennon Holmes:
“Devo scegliere tra questa roba e i camion delle strade. Credo che sceglierò i camion, dove non dovrò spiegare niente e dove non c’è niente di spiegato, ma ci sono soltanto cose reali”.
“On the Road” nacque da quella esperienza nomade, di un giovane vagabondo che incontra solo suoi coetanei, mai “anziani”. Tre amici, quattro viaggi: amori, alcol, droghe… Un linguaggio legato alla vita, ai ritmi della musica del tempo, bebop e jazz. Un viaggio instancabile contro il conformismo: “il tema principale -ha scritto Alberto Mario Banti- è il viaggio senza meta, giocato in disperata contrapposizione all’idea di entrare definitivamente nella “rat race” (corsa dei topi), nell’ingranaggio distruttivo della società americana postbellica”. E’ tipico questo dialogo: “Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati”. “Dove andiamo?”. “Non lo so, ma dobbiamo andare”.
All’arrivo a New York, alla fine del suo primo viaggio, Sal (Kerouac stesso) osserva:
“All’improvviso mi trovai a Times Square. Avevo fatto tredicimila chilometri su e giù per il continente americano, e adesso ero tornato a Times Square e proprio all’ora di punta, anche, e ai miei occhi innocenti da vagabondo toccava di vedere l’assoluta follia e il fantastico, fragoroso via vai di New York con i suoi milioni e milioni di abitanti che sgomitano instancabili per qualche dollaro, l’allucinante sarabanda del prendi, arraffa, dai, sospira, muori, solo per essere sepolti in quelle orribili città funerarie dietro a Long Island City”.
Ricordo una bellissima giornata trascorsa a Spezia con Fernanda Pivano. Lei mi parlò della Beat Generation come di una “esperienza spirituale”. Aveva perfettamente ragione. Lo aveva scritto nella Prefazione a “On the Road”:
“La ricerca disperata e ininterrotta di un nuovo valore morale, di una nuova ragione del mondo, di una nuova spiegazione della vita, fa di loro una tormentata generazione di mistici e di filosofi”.
“Anarchici”, scrive subito dopo. Desiderosi di estraniarsi dalla società, in lotta contro un impianto morale rinnegato. Individualisti ma anche comunitari, con uno stile di vita basato su una rete di piccoli gruppi. Come le comunità beat che negli anni Sessanta si crearono al Greenwich Village di New York, a North Beach (San Francisco), a Venice Beach (Los Angeles). C’è sempre, per la Beat Generation, un barlume di ottimismo, di fiducia, di speranza. Il termine “beat” ha due accezioni: quella originaria di “battuto”, “prostrato”, “distrutto” e quella lanciata da Kerouac, che trasforma lo stato di prostrazione in uno di beatitudine. Beat = Beatific. La beatitudine dei perdenti, degli sfruttati, dei marginali, dei neri, dei pazzi.

New York, veduta di Manhattan e dell’Empire State Building dal fiume Hudson
(2008) (foto Giorgio Pagano)

DAGLI ANNI SESSANTA AL SESSANTOTTO: UNA TRAVOLGENTE ESPERIENZA ESISTENZIALE
Fernanda Pivano concludeva la Prefazione, scritta nel 1958, riferendosi così agli autori della Beat Generation: “Si può credere nel loro avvenire”. Vide giusto. Tutta la cultura degli anni Sessanta si collegò a quell’eredità di protesta, di rifiuto, di creatività. Da Bob Dylan alla generazione del Vietnam, al Sessantotto.
Quello di Kerouac è un nome ricorrente nei racconti di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata”. Attraverso di lui una generazione incontrò il pacifismo, l’anticonsumismo, nuovi stili di vita: i capelli lunghi, jeans e minigonne, lo slogan “Fate l’amore e non la guerra”. Da queste prime scelte di tipo simbolico si passò rapidamente alla critica di ogni istituzione, in primo luogo la più prossima, la famiglia, poi la scuola e la società borghese. Il Sessantotto studentesco spezzino ebbe origine anche dallo spettacolo teatrale “Beat Generation”, rappresentato il 24 giugno 1967 in Sala Dante. Nella conferenza stampa uno degli studenti organizzatori, Carlo Marletti, disse: “Il fenomeno beat non è una degenerazione del costume ma un serio intento morale”.
Come tutti i fenomeni storici, la Beat Generation, gli anni Sessanta e il Sessantotto sono un passato irripetibile. Questi fenomeni contengono però lezioni, che aiutano a capire meglio il mondo in cui viviamo.
La generazione dei beat ebbe molto a che fare con la guerra. Perché la Seconda guerra mondiale e il dopoguerra -la “guerra fredda”- avevano impedito a quella generazione di vivere in modo innocente la propria gioventù. Era una generazione pacifista perché viveva dentro un mondo costantemente sottoposto alla minaccia della sua autodistruzione nucleare. Uno dei circoli culturali più interessanti che sorsero negli anni Sessanta a Spezia si chiamava, non a caso, “Einstein”. Ma oggi non viviamo ancora in un mondo simile? Anzi, l’intensità di quella minaccia è aumentata ed è più difficile da controllare. A un sistema mondiale che puntava sulla guerra in quegli anni venne contrapposto un senso di solidarietà universale, di “globalizzazione” dei destini individuali e collettivi. Quell’utopia vive ancora, anche se il contesto attuale la rende di difficile attuazione.
Più in generale, la Beat Generation ha preannunciato l’atteggiamento di fondo che ha animato gli anni Sessanta e il Sessantotto: l’ispirazione più profonda della “contestazione” non fu strettamente politica ma esistenziale. Il Sessantotto come “rivolta etica” raccolse l’eredità di molte diverse forme espressive della creatività culturale nate ai margini della società di massa, tra cui la Beat Generation.
Anche a Spezia il Sessantotto fu anzitutto una travolgente esperienza esistenziale. Così l’ha descritta lo storico Agostino Giovagnoli:
“Centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze entrarono in un inedito intreccio di relazioni collettive, senza più confini rigidi tra pubblico e privato, tra personale e politico. “Tutto è politica” si leggeva sui muri delle Università. Non ci fu solo il senso della liberazione da un controllo autoritario, ma anche la gioia e l’emozione dell’incontro con l’altro. Il ragazzo wasp dei quartieri alti americani divenne amico del giovane black che viveva nel ghetto, il figlio del borghese divenne amico del figlio dell’operaio e così via. La contestazione è stata l’esperienza di una festa: la festa di un incontro intenso e continuato che liberava dalla solitudine e dall’isolamento”.
E fu una spinta verso quel nuovo umanesimo che stiamo ancora cercando:
“Il Sessantotto costituì il tentativo di una reazione culturale umanista all’avvento di un mondo sempre più consumista, tecnologizzato, disumanizzato. Fu un atto di ribellione alla morte dell’uomo che tutto ciò preannunciava: fu il sogno di un mondo nuovo a misura d’uomo. E’ proprio questo sogno la sua più importante eredità: se gli avvenimenti del 1968 appaiono per più versi lontani, questa eredità è più che mai attuale”.

Post scriptum
Dedico l’articolo a un caro amico scomparso in queste ore, Renzo Fregoso, grande poeta del nostro dialetto.
Su questa rubrica avevo festeggiato il suo centesimo compleanno, nell’articolo del 30 gennaio 2022 “Un grande abbraccio a Renzo, poeta centenario”.
L’articolo è dedicato anche a Luciano Secchi, che negli anni Sessanta fu giornalista de “L’Unità” e Segretario della FGCI, scomparso nei giorni scorsi. Malato da tempo, non poté partecipare a quella grande avventura collettiva che è stata la scrittura del libro “Un mondo nuovo, una speranza appena nata”. Ma Luciano è presente in tantissime pagine, con i suoi articoli -molto belli quelli del 1964 sulle condizioni di lavoro delle filandine e degli operai dello jutificio Montecatini di Fossamastra- e con i ricordi degli altri testimoni. Colpisce la testimonianza di Mario Margini, dirigente della FGCI genovese, presente al congresso dei giovani comunisti spezzini del 1966: “A Secchi era chiarissimo che stava venendo avanti una nuova generazione… Una sera andammo a Lerici, all’Ostello della Gioventù, per vedere di persona le novità: lì capimmo che c’era un altro mondo, e che noi, se non cambiavamo, correvamo il rischio di essere tagliati fuori”.
Anche questo passo ci fa capire che, dall’interessantissima microstoria spezzina, si può comprendere molto della storia nazionale e internazionale di quegli anni. Da questa consapevolezza è nato il convegno di studi “Il prisma spezzino. Il Sessantotto dalla dimensione locale a quella globale”, che si terrà venerdì 25 marzo (ore 15) e sabato 26 marzo (ore 9) alla Spezia in Sala Dante, organizzato dall’’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea e dall’Associazione Culturale Mediterraneo, in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale – Ambito territoriale della Spezia.
Le fotografie di oggi -che ho scattato nel 2008 a New York- sono di una veduta di Manhattan dall’Empire State Building e di una veduta di Manhattan e dell’Empire State Building dal fiume Hudson.

lucidellacitta2011@gmail.com

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