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La storia dei disertori che passarono alla brigata Centocroci e di oltre quaranta “bravi tedeschi”. Prima parte

a cura di in data 20 Luglio 2021 – 21:30

Compiano, il Castello
(2014) (foto Giorgio Pagano)

Prima Parte
Città della Spezia 4 luglio 2021

UNA MINORANZA SPESSO DIMENTICATA
La lotta partigiana alla Spezia ebbe un carattere fortemente antifascista (contro i fascisti della Repubblica di Salò) ma anche antinazista (contro i tedeschi occupanti). E’ un intreccio da approfondire. La memoria spezzina della deportazione -siamo la città italiana con il più alto numero di deportati percentualmente alla popolazione- è certamente antinazista, ma è anche antifascista: perché è dall’ex 21° Reggimento Fanteria, caserma occupata dalle brigate nere e trasformata in comando-carcere e in luogo di terribili torture, che partivano i prigionieri condannati ai campi di concentramento in Germania. Nelle testimonianze che ho raccolto nei libri “Eppur bisogna ardir” e “Sebben che siamo donne” emerge che i fascisti si comportavano spesso in modo più feroce dei tedeschi. Ed è ancora viva la memoria del dopoguerra, del tempo dei processi contro i crimini fascisti -nel periodo che va dal giugno 1945 al maggio 1947-, che rivelarono una vera e propria galleria degli orrori. Tuttavia Spezia non ha mai dimenticato nemmeno gli orrori nazisti: ricordo bene -ero Sindaco- che il Comune e la città furono in prima fila nella battaglia per i processi ai responsabili delle stragi naziste, perché da noi aveva sede la Procura dove erano stati trasferiti ben 214 fascicoli. Affiancammo alla difesa delle parti civili un legale di fiducia e organizzammo il convegno nazionale “Dall’armadio della vergogna ai processi: il cammino della verità”.
In questo intreccio tra memoria antifascista e memoria antinazista il mondo spezzino della Resistenza ha mantenuto un vigile equilibrio: l’attenzione posta sulle stragi e sui crimini nazisti, dettata da esigenze sacrosante non solo di memoria storica ma anche di risarcimento morale delle vittime, non ha mai comportato una rimozione delle colpe italiane grazie al comodo alibi degli “italiani brava gente”. Contro l’autorappresentazione del “bravo italiano” in contrapposizione al “cattivo tedesco” -per usare le parole dello storico Filippo Focardi- abbiamo sempre insistito sui crimini del fascismo. Gli italiani, per fare un solo esempio, furono “oppressori e carnefici” nei Balcani dopo il 1941. Ma se il Presidente tedesco Rau andò a Marzabotto, ancora nessun Presidente italiano ha fatto visita a uno dei luoghi simbolo dell’occupazione italiana in Jugoslavia. Forse perché in Germania c’è stato un lungo e travagliato processo di “resa dei conti” con il proprio passato che da noi è mancato. Il Presidente tedesco Steinmeier, nei giorni scorsi, ha tenuto uno storico discorso, dietro al leggio dell’ex quartiere generale sovietico a Berlino-Karlshort, l’edificio in cui la Germania firmò la capitolazione l’8 maggio 1945: ha ricordato il coraggio dei soldati dell’Armata Rossa, pronti a dare la vita per sconfiggere “il peggior regime che abbia mai devastato il pianeta”. Ma in quella “guerra criminale di aggressione”, per usare ancora le parole di Steinmeier, c’erano anche le nostre uniformi. I conti con la storia sono un processo collettivo complesso, che la Germania deve proseguire e l’Italia deve ancora in gran parte fare. Alla fine, se ne saremo capaci, emergerà con chiarezza che ci furono “bravi italiani” -oppositori del fascismo, ma anche “cattivi italiani”; e “cattivi tedeschi”, ma anche “bravi tedeschi” -oppositori del nazismo. Spezia può essere aiutata, in questo processo di diffusione di una maggiore consapevolezza critica, dall’aver avuto, tra gli eroi della Resistenza, un disertore tedesco, il capitano Rudolf Jacobs, che morì a Sarzana in un assalto contro le brigate nere il 3 novembre 1944: per riscattare insieme la sua biografia e quella del suo Paese, dimostrando che c’erano anche “bravi tedeschi”.
Lo storico Carlo Greppi sta lavorando a un libro importante su Jacobs e ha chiesto la collaborazione mia e di altre persone dell’antifascismo spezzino. Abbiamo aderito con entusiasmo, e ne è scaturito un fitto dialogo quotidiano, che ha aiutato tutti. Anche noi spezzini: a cogliere di più la portata del fenomeno della diserzione tedesca nella nostra Resistenza. Una minoranza spesso dimenticata, ma con una dimensione quantitativa rilevante e un significato civile ed etico straordinario. Questo articolo è il frutto di questa sollecitazione, e di ciò ringrazio sentitamente Carlo. Nelle storie che racconterò oggi e domenica prossima potremo contare, alla fine, oltre quaranta casi di diserzione. Ancora il 25 aprile di quest’anno, in un articolo dedicato a Jacobs su “MicroMega”, scrivevo di “una quindicina” di casi. Comunque schegge, si potrebbe dire. Ma è un numero destinato, con la ricerca storica, a crescere ancora. E poi sono schegge che emozionano e fanno riflettere: la guerra contro il nazifascismo è stata universale.

LA BATTAGLIA DEL MANUBIOLA
Anche tra i tedeschi, ha scritto Filippo Focardi, non mancarono “bagliori di umanità non spenta”. Oltre alla vicenda di Jacobs, ce lo indicano tanti altri episodi. In particolare la diserzione tedesca dopo la battaglia del Manubiola, alle Ghiare di Berceto, il 30 giugno 1944, settantasette anni fa.
Fu una grande vittoria dei partigiani, tra le più memorabili della Resistenza nel Parmense: l’ultima prima della fine del Territorio Libero del Taro, che si estendeva -ufficialmente dal 15 giugno 1944- a ovest del Manubiola fino ai confini liguri e piacentini.
Diversi distaccamenti di partigiani ricacciarono indietro una colonna della Feldgendarmerie composta da più di 150 uomini e dodici automezzi, decisa a distruggere la roccaforte partigiana di Borgotaro. Dopo due ore di combattimento i nazisti si arresero: ottanta tedeschi fatti prigionieri, quattordici morti, numerosi feriti, un ingente bottino di armi. I tedeschi uccisero due civili, otto furono le vittime tra gli ostaggi che avevano fatto prigionieri, di cui si fecero anche scudo. Tra i partigiani ci furono due morti e alcuni feriti, tra cui lo spezzino Aldo Costi “lo Zio”. La vittoria, come detto, fu breve. Dagli inizi di luglio colonne tedesche attaccarono da vari punti Borgotaro, decretando la fine del Territorio Libero.
Alla battaglia del 30 giugno partecipò anche la brigata spezzina Centocroci, operante tra Val di Vara e Val di Taro. Comandante era Gino Cacchioli “Beretta”, vicecomandante Federico Salvestri “Richetto”, che diventerà comandante a luglio. Aldo Costi “lo Zio” era stato commissario politico della banda nella fase iniziale, da poco era stato nominato responsabile dell’approvvigionamento. Quel giorno c’era pure la banda locale operante tra Buzzò e Gotra, guidata da Bruno Zanrè, che dipendeva dalla Centocroci e, dopo luglio, si sciolse (Zanrè passò nel Battaglione Internazionale guidato da Gordon Lett).
Grazie ai prigionieri -ha raccontato “Richetto” nel libro “Centocroci per la Resistenza” di Camillo Del Maestro- “potemmo trattare la tregua per lo scambio del 18 luglio 1944” (p. 47).
Ma -fatto ancor più importante- qualcuno, tra i tedeschi, passò con i partigiani.
Leggiamo, nel libro “La Brigata garibaldina Cento Croci. Storia e Testimonianze”, a cura di Giulivo Ricci, Varese Antoni e dei Protagonisti, il racconto di Giorgio Vara:
“Gestire tutti quei prigionieri non fu facile, per certo verso facevano pena, avevano pena uno dell’altro e alcuni criticavano Hitler, ma di nascosto. Era difficile capirsi, ma cercavano di spiegare che non volevano la guerra: anche quelli che sembravano più disponibili e non faziosi (c’erano anche alcuni anziani) facevano capire che anche loro erano contro la guerra, ci facevano vedere fotografie delle loro famiglie e che avevano bambini a casa. Ma avevano paura e cercavano di far in modo che gli altri di loro non capissero quello che volevano dirci. Facevamo loro della gran polenta di castagne, e li abbiamo trattati al meglio, senza un maltrattamento qualunque. Poi sono stati spostati in altra località. Seppi che diversi di loro furono dati in cambio per liberare nostri partigiani; qualcuno di loro si rifiutò e appena fu possibile andarono nel Battaglione Internazionale; due austriaci restarono con noi” (p. 137).
La testimonianza è molto interessante. La diserzione, si potrebbe dire, non fu un fenomeno solo ideologico o ideale (come in Jacobs), fu forse nella maggior parte dei casi frutto di un momento occasionale. Appare come un fatto legato alla natura stessa della guerra e della vita militare.
Le motivazioni dei disertori furono le più diverse. Ma nascevano tutte, comunque, da una scelta morale.
Risulta da più fonti. Nella testimonianza sulla battaglia del Manubiola del cappellano della Centocroci, il parroco di Càssego di Varese Ligure don Luigi Canessa (nel suo libro “La strada era tortuosa”), leggiamo:
“Un altro [tedesco] esce da una siepe col mauser a tracolla e si presenta ai partigiani: ‘Bravi combattenti, io non aver sparato perché tutti patrioti: voi in Italia, io, se potessi, in Germania” (p. 59).
Ancora: lo storico Roberto Battaglia, nel libro “Risorgimento e Resistenza” riporta la testimonianza raccolta dal ricercatore spezzino Giulio Mongatti:
“Un partigiano della Centocroci […], interrogato sulla presenza dei tedeschi nella sua brigata, ha così risposto: ‘Non ricordo più i loro nomi. Quanto poi alla causa della loro diserzione, ricordo che essi, quando volevano dire qualcosa, dicevano che l’essere lontani da casa, l’avere avuto i loro cari morti sotto i bombardamenti li aveva convinti a porre fine a uno stato di cose intollerabili, a una guerra di cui ormai erano stanchi’”.
Si può dunque ipotizzare che un piccolo nucleo degli ottanta tedeschi fatti prigionieri nella battaglia del Manubiola sia passato con i partigiani della Centocroci. Altre fonti sembrano confermarlo, anche se non tutte fanno un riferimento specifico a quella battaglia.
Antonio De Lucchi “Tugnin”, nel libro di Del Maestro, racconta:
“Nelle nostre file abbiamo ricevuto un tenente tedesco, più volte ferito e decorato reduce da Stalingrado, era molto coraggioso e deciso: durante un’azione condotta alla Spezia è stato fatto prigioniero e prima di morire fucilato ha mandato una lettera di addio alla moglie del comandante”.
Abbiamo inoltre il dato del Registro storico dei riconoscimenti, custodito nell’Archivio dell’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea (ISR). Si tratta di un documento coevo alla Commissione preposta ai riconoscimenti: in esso ci sono i partigiani e i patrioti riconosciuti, i quali, vivi dopo la Liberazione presentarono domanda di riconoscimento e la ottennero grazie ai requisiti che avevano. Non tutti i partigiani erano purtroppo in vita e non tutti, soprattutto tra gli stranieri, chiesero il riconoscimento. Detto questo, il Registro -sugli stranieri è stata realizzata da Maria Cristina Mirabello un’apposita scheda, che sarà pubblicata negli Strumenti ISR- documenta che nella Centocroci combatterono tre partigiani con ogni probabilità tedeschi: Helbert Lohrmann, Otto Schroter e Lothar Forster. In un documento sull’organico della Centocroci del 23 novembre 1944 è presente Antonio Raberger, forse tedesco.
La conferma, infine, del passaggio di alcuni disertori dalla Centocroci al Battaglione Internazionale (molto forte era il legame sia di “Beretta” che di “Richetto” con Gordon Lett) sembra venire dal figlio di Lett, Brian, che nel suo libro “Gordon Lett. Amico dell’Italia. Partigiano a Rossano, Cittadino di Pontremoli, Albareto, Reggio Emilia”, in una foto (la n. 21) della rassegna fotografica collocata nel finale del libro, indica in un gruppo uno degli uomini come “disertore tedesco”. E’ vero che Gordon Lett aveva scritto nel suo libro “Rossano” che “fra i tedeschi i disertori furono pochissimi” (p. 140), ma va precisato che il Battaglione Internazionale era quantitativamente esiguo. In ogni caso il figlio testimonia che almeno un caso ci fu.

Bardi, il Castello
(2020) (foto Giorgio Pagano)

MARIO, ENRICO E LA LORO SORTE SCONOSCIUTA
Un’altra testimonianza della presenza di disertori tedeschi nella Centocroci è contenuta nel testo inedito “Tullio. Memorie. Cronache resistenziali”, scritto dal comandante partigiano Primo Battistini “Tullio”, che ho potuto leggere grazie ai figli Alberto e Oscar.
Tullio scrive che, dopo il rastrellamento del 3 agosto 1944, lo raggiunsero a Ponzano Superiore (nel gruppo che poi partecipò alla formazione della brigata Muccini) “Mario, il capitano austriaco degli alpini che passerà poi il fronte con me, e un tenente di Colonia in Germania. Essi prima avevano militato nella brigata partigiana Centocroci”.
Non credo si tratti di un alpino: probabilmente è un lapsus di Tullio.
Mario aveva sentito parlare della fama di “Tullio” (mi dice il figlio Alberto sulla base dei ricordi paterni) e -scrive Tullio- “si era messo d’accordo con ‘Richetto’” “perché lo facessero arruolare nella brigata Vanni (a quei tempi comandata da me a Zeri”). Quindi Mario “si era messo d’accordo con ‘Richetto’” prima del rastrellamento del 3 agosto 1944: fu dopo il rastrellamento che “Tullio” lasciò Zeri e si spostò in Val di Magra. Non c’è il riferimento alla battaglia del Manubiola, ma Alberto ricorda una diserzione abbastanza consistente.
Continua “Tullio”:
“Mario mi raggiunse poi, circa due mesi dopo, a Ponzano Superiore, portando con sé il tenente di Colonia e diverso equipaggiamento, tra cui diversi timbri necessari a falsificare documenti e salvacondotti tedeschi, e diverse pistole Verì per segnalazioni (che si riveleranno molto utili durante il rastrellamento del 29 novembre 1944). Quando passammo il fronte, gli alleati lo misero in un campo di concentramento non permettendogli di tornare con me, come del resto avverrà per i russi. Mario era di fede comunista”.
“Tullio” scrive di Mario anche in seguito:
“Alcuni giorni dopo, cioè verso la fine del novembre 1944 avevo trasferito, per un’audace azione, una nostra pattuglia a La Spezia. Comandava la pattuglia, travestito da comandante degli alpini, il capitano austriaco Mario. Avevamo preso contatti con la Banca d’Italia ed avevamo trovato la collaborazione di un sergente della X Mas di Santo Stefano, in servizio alla banca stessa, tal Vanacore. Si trattava di attendere che la divisione fascista Monterosa effettuasse il deposito dell’intera sua cassa per poi prelevare quell’ingente somma. Per tre giorni la pattuglia restò in città e, d’intesa col personale della Banca, gli uomini si erano nascosti nei locali della Banca medesima, dormendo nei locali stessi. In quei giorni io ero di pattuglia presso il traghetto di Fornola, vestito da capitano della X Mas, per controllare se circolassero delle spie fasciste. Improvvisamente giunse l’avvertimento che stava iniziando il rastrellamento del 29 novembre. Rientrammo immediatamente, sia io che la pattuglia comandata da Mario, in zona”.
Un disertore tedesco stava per rapinare la Banca d’Italia!
Da questo passo si può forse capire perché nel precedente Mario è definito alpino: Mario si era travestito da alpino perché la Monterosa era la divisione degli alpini. Da qui, probabilmente, il lapsus di “Tullio”.
“Tullio” cita infine Mario quando scrive del rastrellamento del 29 novembre:
“A notte inoltrata partimmo tutti. Mi servivo del capitano austriaco Mario che con la sua pistola Verì faceva segnalazioni atte ad ingannare i tedeschi circa la nostra direzione, riuscendo nell’intento. […] Venni al Chiapparo, sopra Caprigliola, e mi stabilii in una casetta. Erano con me, fra gli altri, il capitano austriaco Mario, il tenente di Colonia, ‘Freccia’ e ‘Vampa’”.
La presenza nella brigata Muccini del capitano e del tenente è ricordata anche nella testimonianza in “Voci della memoria” (ISR) di Giuseppina Cogliolo “Fiamma”, che fu partigiana anche nella Muccini, condotta ai monti da “Tullio”. “Fiamma” sul capitano, che sbagliando definisce polacco, dice:
“Quello sapeva, lui è scappato dai tedeschi no? Assieme a un tenente, che quello era proprio tedesco. Lui sapeva non so quante lingue. A me m’ha insegnato tante cose, a scrivere a macchina, mi faceva scrivere le lettere in inglese ecco! E lui diceva sempre: ‘Dopo la guerra scriverò un libro dal titolo Una ribelle di nome Fiamma’. Poi io non l’ho più visto, non so se l’hanno ammazzato, se… sai, le vicende del dopoguerra non si sanno. E allora m’è venuto in mente quella volta, ho detto: ‘Voglio scriverlo io, Una ribelle di nome Fiamma’. In fondo ribelle la sono sempre anche adesso! Figuriamoci allora!”
Giuseppina Cogliolo ha scritto il libro “Una ribelle di nome Fiamma”, ma non c’è traccia dei due disertori.
Anche Giulivo Ricci, nella sua “Storia della brigata Muccini”, racconta di Mario e del tenente, a cui dà, raccogliendo la testimonianza di Tullio, il nome Enrico.
Dopo il rastrellamento del 29 novembre, quando il grosso della Muccini dovette passare il fronte e giungere nella Toscana già liberata, i due disertori finirono, come scrive “Tullio”, in un campo di concentramento. Insieme ai loro connazionali nazisti prigionieri. Non lo meritavano.
Di loro non si seppe più nulla. Nella “guerra popolare europea” contro il nazifascismo i “bravi tedeschi” avevano fatto la scelta giusta, ma nella Germania del dopoguerra vennero considerati “traditori” e “nemici del popolo”. Quell’eroica minoranza fu davvero a lungo dimenticata.

Post scriptum:
Sulla battaglia del Manubiola e sulla brigata Centocroci, oltre ai libri citati nell’articolo, rimando a:
Giacomo Vietti, “L’Alta Val Taro nella Resistenza”;
Giacomo Bernardi, “1944: quel luglio di sangue”;
e all’articolo di questa rubrica “’Richetto’, Tino e la ‘santa pattona’”, 18 gennaio 2015.
Su Primo Battistini “Tullio” rimando all’articolo di questa rubrica “Tullio, eroe e fuorilegge”, 21 giugno 2015.

lucidellacitta2011@gmail.com

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