Per un golfo di pace, lavoro e sostenibilità “Riflettiamo sul progetto Basi Blu” – Sabato 13 aprile ore 17 alla Sala conferenze di Tele Liguria Sud
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La lunga estate calda

a cura di in data 19 Agosto 2017 – 15:05
San Terenzo, mostra delle fotografie selezionate per il concorso La Marguttiana sul tema "Il vento", 28-29-30 luglio 2017: Bonassola, mareggiata (2016) (foto Giorgio Pagano)

San Terenzo, mostra delle fotografie selezionate per il concorso La Marguttiana sul tema “Il vento”, 28-29-30 luglio 2017: Bonassola, mareggiata
(2016) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 13 agosto 2017 – Tutti discutiamo, in queste settimane, del fatto se questa estate sia o no più calda di quella del 2003. Certo è che, nelle nostre città, i viali alberati sono ricoperti da un tappeto di foglie secche, a causa della siccità e della mancanza d’acqua per i nostri poveri alberi. I mitilicoltori spezzini raccontano preoccupati che nei vivai sono arrivati i pesci tropicali. Le viti si piantano sempre più in alto. L’elenco potrebbe continuare. La notizia più drammatica è di un mese fa: in Antartico un iceberg enorme, uno dei più grandi di tutti i tempi, si è staccato. Un altro drammatico segnale dell’impatto globale del clima che cambia, di una realtà catastrofica già in atto. Eppure, scrive il romanziere Antonio Scurati, “nonostante tutto ciò, fatichiamo ancora ad assumerne fino in fondo la consapevolezza”. Il problema, secondo lui, è questo: “Le tragedie epocali non mancano, anche le epopee altrui di popoli in marcia ci riguardano ma ormai ci difetta il sentimento tragico ed epico degli accadimenti, che ci consenta di vederle, di capirle, di esserne all’altezza”.
Non solo la scienza, anche l’arte può aiutarci a recuperare questo sentimento. Come l’arte narrativa. Il 16 aprile di quest’anno su “Robinson”, l’inserto culturale di “Repubblica”, l’antropologo Amitav Ghosh ha scritto di come la narrativa che tratta o racconta di mutamenti climatici fatichi a essere praticata. E, quando lo è, fatichi a essere compresa e a trovare recensori e attenzione, o il dibattito che meriterebbe. Diceva: “si potrebbe sostenere che la narrativa che si occupa di cambiamento climatico sia un genere che le riviste letterarie serie non prendono sul serio; la sola menzione dell’argomento basta a relegare un romanzo o un racconto nel campo della fantascienza. È come se nell’immaginazione letteraria il cambiamento climatico fosse in qualche modo imparentato con gli extraterrestri o i viaggi interplanetari”. Per poi notare che “quando decidono di scrivere del cambiamento climatico i romanzieri non optano quasi mai per la narrativa”.

QUALCOSA, LA’ FUORI
In Italia, solo Bruno Arpaia ha provato ad aprire una breccia in un fronte nel quale il silenzio pare quasi assoluto. Lo ha fatto con “Qualcosa, là fuori”: un romanzo che l’Associazione Culturale Mediterraneo, in collaborazione con altri amici, ha presentato nelle scorse settimane al Castello San Giorgio e a Levanto. Non un saggio, ma un romanzo con una scrittura potente di grande suggestione. Non un romanzo di fantascienza, ma un romanzo realistico. Io parlerei di “neorealismo”: ancora e per fortuna.
Ambientato nell’ultimo quarto del XXI secolo, “Qualcosa, là fuori” racconta il viaggio della speranza di un enorme convoglio di uomini, donne e bambini che, partiti da Napoli, cercano di trovare la salvezza migrando al Nord, verso le coste della Scandinavia. La cronaca del viaggio di questa carovana ridotta alla fame attraverso un’Europa diventata invivibile, stravolta dall’innalzamento delle temperature sulla Terra, è alternata alla ricostruzione a ritroso della vita di Livio, il protagonista. Mentre il viaggio della salvezza procede vengono così ripercorsi stagione dopo stagione gli stravolgimenti climatici e i conseguenti assestamenti geopolitici avvenuti sul pianeta: dal 2015 in cui Livio, ragazzo, abbraccia una sorta di attivismo ecologista; fino all’ultimo quarto del secolo quando, ormai quasi vecchio, affronta appunto il viaggio verso le terre dell’estremo Nord, le ultime rimaste abitabili.
Arpaia sa ricostruire gli effetti del cambiamento climatico in maniera, a un tempo, molto avvertita dal punto di vista dei presupposti scientifici su cui si basa e molto efficace dal punto di vista dell’impianto narrativo. Qui viene fuori la tipicità di Arpaia: un romanziere molto curioso, che si appassiona a un tema, lo sviscera fino in fondo e poi costruisce una trama narrativa che ci appassiona.
E che ci invita a mobilitraci, per cambiare rotta. Per sconfiggere quella che Leila, la moglie di Livio, definisce la “teoria dei giochi”: “I politici hanno anche una giustificazione razionale per non muovere un dito… La verità è che, dal punto di vista della teoria dei giochi, la strategia ottimale per ogni nazione è fare in modo che siano gli altri a ridurre le emissioni… Voglio dire che se qualcuno, spendendo o perdendo un sacco di soldi, adottasse delle misure serie per non immettere carbonio nell’atmosfera, tutti ne ricaverebbero benefici, però i costi li pagherebbe soltanto lui. Perciò, alla fine, in mancanza di un vero governo sovranazionale, tutti aspettano che siano gli altri a fare la prima mossa, e il risultato è quello che sappiamo”.

Pista ciclabile Bonassola-Framura, mareggiata (2016) (foto Giorgio Pagano)

Pista ciclabile Bonassola-Framura, mareggiata
(2016) (foto Giorgio Pagano)

NOI SIAMO LORO E LORO SONO NOI
Nel romanzo c’è poi un altro elemento di grande interesse, e anche forza narrativa: mostrandoci degli uomini in fuga da un’Italia ormai inabitabile, Arpaia getta uno sguardo anche sulle attuali migrazioni. Scrive nella sua recensione il critico Mario Valentini: “Gli svizzeri sopravvivono asserragliati nelle zone di alta montagna e consentono l’accesso al proprio territorio solo dietro lauto compenso e per il tempo necessario all’attraversamento. La Germania è ormai una landa arida e desolata, un nuovo deserto, in cui bambini biondi giocano nella polvere, denutriti e coperti di mosche. L’Unione europea si è dissolta e gli Stati che la componevano sono di fatto senza governo, devastati da anni di guerra civile e interreligiosa, affamati, pericolosi e invivibili. Si è costituita un’Unione degli Stati del Nord che difende il proprio benessere rendendo inaccessibili i propri territori. Nel romanzo il confine invalicabile, per attraversare il quale migliaia di persone perdono la vita, si è spostato circa tremila chilometri più a nord, dal Mediterraneo al Mar Baltico. Qui le acque, a causa dell’innalzamento del livello dei mari, hanno abbondantemente invaso la terraferma sommergendo per intero città come Amburgo e Lubecca”.
Il drappello di guide (tutte donne e tutte agguerritissime) che a caro prezzo, per conto di un’esosa agenzia di viaggi della speranza, scortano queste migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini attraverso città distrutte, campagne riarse, greti di fiumi asciutti, paludi là dove c’erano laghi, può portarli in salvo, ma anche essere spietato con chi non ce la fa a reggere il passo.
“La rappresentazione di questa sorta di ribaltamento -scrive ancora Valentini- risulta davvero potente. I profughi sono gli italiani. La zona desertica è la Germania, il cui sistema di telecomunicazioni è saltato del tutto, non esiste nemmeno più la rete internet. Sulle rive meridionali del Baltico si muove gente tenuta in stato di schiavitù, che lavora nelle piantagioni ricavate su un territorio ormai paludoso. Qui agiscono trafficanti di uomini, la polizia respinge chiunque voglia andare oltre e varcare il confine, potenti organizzazioni criminali lucrano sulla vita delle persone. Al di là del mare, in quella che -si è detto- è diventata l’Unione degli Stati del Nord, c’è il mondo ricco, organizzato, abitabile: quelli che un tempo erano solo piccoli villaggi tra i ghiacci sono diventati le uniche grandi città o metropoli del globo”.
Arpaia sa suggerire, senza dichiararlo, come le migrazioni che descrive nel suo romanzo somiglino alle attuali, se alle rive del Mar Baltico si sostituiscono quelle del Mediterraneo. E se dunque agli italiani in fuga del suo romanzo sostituiamo chi oggi fugge dall’Africa, dalla Siria o da altri Paesi asiatici. Insomma: sembra dirci che noi siamo loro e loro sono noi. Non come eravamo una volta, quando partivamo per le Americhe, per la Germania o il Belgio, o per l’Australia. Ma come potremmo diventare.
E come sono già oggi gli africani del Sahel, quella striscia di terra semi-arida appena sotto il livello del Sahara. Vastissima -si estende dalla Mauritania all’Eritrea- e in forte crescita demografica, la regione conta oggi 135 milioni di abitanti, ma potrebbe averne 330 milioni nel 2050 e quasi 670 milioni nel 2100. Ogni anno, centinaia di migliaia di migranti attraversano queste aree instabili e impoverite per raggiungere il Nord Africa, e poi, eventualmente, l’Europa. Il dibattito sul tema resta aperto, tuttavia gran parte degli studi sembrano concludere che l’aumento della temperatura -più 3-5 gradi entro il 2050; e forse 8 gradi alla fine del secolo- renderà molte aree del Sahel ancora più inospitali, intensificando la frequenza delle migrazioni. Secondo un documento dell’African Institute for Development Policy, l’aumento delle temperature potrebbe causare un calo della produzione agricola che va dal 13% del Burkina Faso al 50% del Sudan. Assisteremo probabilmente alla più grande migrazione della storia dell’umanità.
Ma non c’è solo l’Africa. Il cambiamento climatico può aver spinto al suicidio quasi 60mila agricoltori indiani negli ultimi tre decenni: a rivelarlo è uno studio condotto dall’Università di Berkeley della California, riportato dal quotidiano britannico “The Guardian”. La ricerca si concentra sulla correlazione tra l’aumento delle temperature nelle zone in cui l’industria agricola è più vulnerabile e le morti degli agricoltori, arrivando alla conclusione che a un grado in più corrisponderebbero ben 67 suicidi al giorno, a un aumento di 5 gradi 335 morti. Così, secondo gli studiosi, negli ultimi 30 anni ci sarebbero stati 59.300 suicidi nel settore agricolo, 12.602 di questi solo nel 2015, l’anno peggiore in termini di riscaldamento globale. Gli agricoltori si tolgono la vita perché schiacciati dai debiti e dai problemi economici causati dai danni alle colture, e perché stressati. Così a Nuova Delhi la disperazione dei contadini si è riversata in piazza: centinaia di teschi e ossa appartenenti ad agricoltori che si sono tolti la vita sono stati accatastati a Jantar Mantar, a poca distanza dal Parlamento come prova della disperazione del settore agricolo indiano. I manifestanti provengono quasi tutti dal Tamil Nadu, uno Stato che soffre la sua peggiore siccità da 140 anni, che ha innescato centinaia di suicidi negli ultimi mesi.

LOTTE E SPERANZE
Di fronte alla catastrofe non bisogna arrendersi ma lottare. Mi viene in mente la mia infanzia: il rischio di un’altra catastrofe, quella atomica, fu realmente sfiorato, e forse evitato solo grazie al sangue freddo e alla lucidità di alcuni come Kennedy e Krusciov. Ma se il disastro atomico è stato evitato -almeno per ora, perché il disarmo non è cominciato, e perché la guerra nucleare tra Corea del Nord e Usa è una drammatica possibilità di queste ore-, è anche per le innumerevoli voci pacifiste che si sono levate alte e chiare in quegli anni e dopo da ampi settori della società. Così dobbiamo fare per il cambiamento climatico, come ci esorta Papa Francesco. La mappa delle parole “in” e “out” secondo gli italiani, pubblicata nei giorni scorsi da “Repubblica” ci fornisce qualche speranza: ambiente ed energie rinnovabili e Papa Francesco sono parole “in”; politici e Trump sono parole “out”. Se i politici lo capissero…
E’ vero, Donald Trump ha deciso di ritirare gli Usa dall’accordo sul clima di Parigi, per puntare ancora sui combustibili fossili. Ma una dozzina di governatori di Stati, capeggiati dalla California, che rappresentano 130 milioni di cittadini americani, hanno espresso il loro disaccordo. Così la Cina e l’Unione europea, mentre l’Italia sembra purtroppo puntare di più sul gas che sulle energie rinnovabili. Per bloccare il cambiamento climatico sono nate e nascono di continuo in tutto il mondo nuove attività economiche: è sempre più difficile tornare indietro. Anche per Trump, nonostante tutto. Quindi la speranza non è morta.
Un po’ di speranza c’è anche nel libro disperato di Arpaia. Nella colonna dei migranti ambientali, con la morte per dissenteria e disidratazione sempre dietro l’angolo, si fa quanto possibile per mantenere nonostante tutto un barlume di umanità. Livio finché gli reggono le gambe tiene lezioni serali ai bambini, sudati, impolverati, stanchi ma pur sempre attenti. In molti si rifiutano di lasciar morire sul ciglio della strada i malati e i feriti. Livio si affeziona a una sua ex allieva, alla figlia di lei e ad altri compagni di viaggio. C’è qualcosa là fuori, ed è un grumo di irriducibile umanità.
Concludo con la condivisione delle parole scritte dal fisico Carlo Rovelli sul “Corriere della Sera”: “Grazie a Bruno Arpaia per avere scritto questo libro. Leggiamolo e chiediamo alla politica di fare le scelte giuste. Non abbiamo trasformato il mondo nel sogno di Lennon, la fratellanza di uomini senza stati, religione, proprietà, che vive in pace condividendo il mondo… Possiamo almeno cercare di lasciare alle generazioni future un mondo dove possano vivere. Il futuro dipende dalle nostre scelte”.

Post scriptum
Sul contrasto al cambiamento climatico ho scritto molto in questi anni. Tutti gli articoli sono leggibili su www.associazioneculturalemediterraneo.com. Su questa rubrica si vedano “L’anno più caldo”, 20 e 27 dicembre 2015, e “Spezia cambia pelle grazie alla sfida del clima”, 19 dicembre 2017.

lucidellacitta2011@gmail.com

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