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La dolcezza e la serenità di Bianca

a cura di in data 11 Marzo 2013 – 11:32

Mauthausen, camera a gas (2005) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia – 10 Marzo 2013 – Sono sempre stato colpito dalla dolcezza e dalla serenità emanate da Bianca Paganini, la donna spezzina che incarna la Resistenza delle deportate. Bianca, di famiglia borghese di orientamento cattolico e antifascista, fu deportata in Germania per motivi politici con la madre, un fratello e la sorella (tutta la famiglia operava nel movimento Giustizia e Libertà, ma due fratelli sfuggirono alla cattura). Il fratello Alfredo morì nel campo di Flossenburg, la madre Amelia in quello di Ravensbruck (l’unico lager esclusivamente femminile, nato per “rieducare” e poi sterminare le deportate politiche di tutta Europa), dove fu prigioniera insieme a Bianca e a sua sorella Bice. L’orrore e la sofferenza vissuti nel campo, giustamente definiti da Bianca “indescrivibili”, emergono comunque dal bellissimo libro “Le donne di Ravensbruck”, la raccolta delle testimonianze di cinque prigioniere politiche italiane, tra cui Bianca (pubblicato nel 1978, purtroppo non più in commercio). Il dolore nel campo e Bianca sono protagonisti anche del documentario “Le rose di Ravensbruck”, che la Sezione Centro dell’Anpi e quella spezzina dell’Aned hanno presentato in occasione dell’8 marzo, Festa della donna. La proiezione è stata accompagnata dalla lettura di Catia Castellani di brani della testimonianza della Paganini contenuta nel libro. E’ stata un’occasione per interrogarsi, discutere, riflettere. Per esempio ho capito meglio le ragioni di quella dolcezza e di quella serenità che Bianca trasmette. “Con mio marito -scrive- qualsiasi cosa possa succedere, cerco di essere calma, di non urtarlo: non so se agisco così perché è nella mia natura oppure perché me l’ha insegnato la vita nel campo. Ma prima non ero così: spiattellavo quello che veniva. Oggi dico sinceramente quello che penso, ma prima di ferire una persona ci penso dieci volte, perché so quanto si patisce a esser feriti dagli altri..Quell’esperienza non l’auguro a nessuno, non la rifarei per tutto l’oro del mondo, però da tanto male a me, sinceramente, è pur derivato del bene”. Cioè la comprensione dei veri valori della vita, delle cose che veramente contano e sono dentro di noi: “gli affetti profondi, l’onestà, la generosità, la sincerità verso gli altri”.

Mauthausen, la “scala della morte” (2005) (foto Giorgio Pagano)

Certo, è stata dura narrare, per i deportati. Sia per paura del dolore della rievocazione sia per il timore di non essere capiti e creduti. Forse soprattutto le ex deportate politiche hanno sofferto di quest’ultimo timore. La specifica oppressione che le donne patiscono si manifestò al loro rientro in patria, e in seguito, in forma particolarmente crudele: spesso, scrive la storica Anna Maria Bruzzone nell’introduzione al libro, “esse si videro opporre un muro di disinteresse, di incomprensione, di diffidenza e talora persino di ostilità”. La loro partecipazione alla Resistenza è stata sminuita. Anche ambiguamente: “chissà che cosa avranno passato lassù!”. Come dimostrano i tanti film che mescolano indegnamente morbosità, pornografia e deportazione femminile, dando di questa un’immagine completamente falsa.
Il fatto che per tutti questi anni il protagonismo delle donne nella lotta di Liberazione sia stato sottaciuto è all’origine della scelta del Comitato Unitario della Resistenza di dedicare l’anno 2013 proprio a questo tema. Se ne è discusso, sempre in occasione dell’8 marzo, nell’incontro dell’Udi su “Donne, diritti e Costituzione”. Ho ricordato, intervenendo, tutte le protagoniste dimenticate: le partigiane armate, mai facilmente accettate da una Resistenza ancora maschilista, e le tante donne della Resistenza senza armi, dalle deportate alle staffette, dalle contadine che nascondevano i partigiani alle operaie che lottavano nelle fabbriche. La Paganini era stata, a tal proposito, chiarissima già nel libro: “La donna fu praticamente la linfa della Resistenza, perché senza la donna la Resistenza non sarebbe potuta essere. E’ alle donne che i partigiani devono tutto. Da chi ricevevano aiuto? Non dagli uomini, perché gli uomini non c’erano più, ma dalle donne, che a loro portavano da mangiare, offrivano le case, li curavano, li avvisavano in caso di pericolo, li sottraevano alla cattura. Il contributo della donna fu analogo a quello dell’uomo, se non maggiore. Io non tolgo nessun merito agli uomini, però gli uomini si sono dimenticati che alle loro spalle c’era tutto un mondo di donne, che lavoravano accanto a loro e per loro, e che pagarono nello stesso modo”. Come le tre donne Paganini. Bianca ricorda anche la “positività” dell’esperienza di Ravensbruck, la capacità delle donne di unirsi, di resistere, di opporsi. “Ci fu -scrive- chi venne fucilata perché si era opposta in maniera aperta, e chi faceva una resistenza passiva. Non lavorare o lavorare male e lentamente era un’opposizione. Dirò di più: riuscimmo anche a non dimenticarci di essere donne. Quante volte cercavamo di metterci due bigodini fatti con dei fili di ferro! E ci sforzavamo di tenerci pulite il più possibile. Non lasciarci andare, non perderci completamente, mantenere il senso di femminilità era già, accanto all’aiutarci e al conservare la dignità umana, una cosa molto positiva”. Anche se, aggiunge, “trovai nelle donne che comandavano una cattiveria spinta all’eccesso, forse maggiore di quella degli uomini…quelle donne, poste in una condizione e in ruoli maschili, vollero essere, anche nel male, uguali agli uomini: in realtà furono peggiori di loro, perché noi non dovremmo essere cattive, dato che, per natura, siamo sempre più dolci”. Pagine che fanno davvero riflettere sulla natura umana, dell’uomo e della donna. Ma non c’è solo la soldatessa tedesca che uccide a calci nella pancia una deportata che aveva rubato un pezzettino di stoffa. C’è anche il coraggio della madre di Bianca che fa dire a un comandante tedesco nel carcere spezzino: “Mille donne come te e io qua non ci sarei”.
E’ vero che oggi la lotta per la liberazione della donna non è finita, anzi. La Resistenza fece emergere un movimento di consapevolezza femminile che è all’origine di una Costituzione straordinaria, che mette al centro il principio di eguaglianza, anche tra i sessi. Poi, soprattutto negli anni ’70 del Novecento, si aggiunsero tante conquiste nel campo dei diritti. Ma c’è una cultura che resiste ancora nelle pieghe della società, un’idea della donna che, anche se non trova lavoro, dopo tutto un lavoro ce l’ha ed è la maternità, una concezione della donna come proprietà, che giunge persino al femminicidio. E’ vera, comunque, anche un’altra cosa: la lotta a questa vecchia cultura, che fa dell’Italia uno dei Paesi più arretrati d’Europa, si può fare solo ancorandosi agli ideali di Bianca e delle donne della Resistenza. Custodire la memoria è decisivo. Il suo filo è molto esile, va continuamente ritessuto.

lucidellacitta2011@gmail.com

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