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La democrazia svuotata, Fra Diavolo e la gente che fa la storia

a cura di in data 9 Giugno 2016 – 08:14
Sao Tomè, Morro Peixe    (2015)    (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomè, Morro Peixe
(2015) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 5 giugno 2016 – Il 2 giugno abbiamo celebrato e festeggiato tre anniversari: la Repubblica, il voto alle donne e l’elezione dell’Assemblea Costituente.
C’è uno stretto legame tra 2 giugno e Resistenza. La fase di riscatto nacque il 25 luglio 1943 (a Spezia ci furono i primi due caduti, tra cui, significativamente, una donna, l’operaia Lina Fratoni); e più decisamente l’8 settembre, fino alla vittoria del 25 aprile 1945.
Il 2 giugno 1946 fu il giorno della scelta decisiva: restare ancorati al periodo prefascista oppure avviare il cammino della democrazia sociale, partecipata e di massa, una democrazia che andasse oltre quella liberale? Con il voto per la Repubblica prevalse la seconda scelta. La scelta che era maturata nella Resistenza.Non a caso, durante la Resistenza, nelle “aree libere” la definizione a cui si pensò fu quella di “repubblica partigiana”.

Il riconoscimento alle donne del diritto di votare e di essere elette (1946) sta dentro la visione democratica non ancorata al periodo prefascista. Era il frutto di un’aspirazione lontana nel tempo (i movimenti femministi di fine ‘800 e inizio ‘900), ma consolidata nella Resistenza, che vide le donne protagoniste. Non si parla più, ormai, di “prezioso” contributo, ma di apporto fondamentale, senza il quale i partigiani non avrebbero potuto farcela. Il voto alle donne ebbe un grande valore simbolico: quello del primo legame, per molte di esse, tra sfera privata e sfera pubblica.
Anche l’elezione della Costituente sta dentro il nuovo quadro della democrazia di massa: si dà vita al percorso che doveva portare alla Costituzione, alle condizioni di vita e ai rapporti politici e sociali sognati nella Resistenza.
C’è dunque un legame strettissimo tra i tre anniversari, riconducibile a un’unica matrice: la Resistenza.
Abbiamo celebrato e festeggiato il 2 giugnoanche se attraversiamo un momento difficile: per la Repubblica, per la condizione delle donne, per la Costituzione. Io l’ho fatto, e tante e tanti con me, perché pensiamo che si possa uscire da questo momento difficile solo facendo riferimento alle scelte, morali e politiche, di settant’anni fa.

La Repubblica ha tradito molte attese, e ha una classe dirigente palesemente non all’altezza. L’Italia è un Paese più diseguale, in pieno declino demografico, economico, morale. La Repubblica non ha corrisposto pienamente allo straordinario protagonismo delle donne italiane. Quel protagonismo che nella Resistenza fece emergere, tra le donne, un movimento di consapevolezza, di autonomia, di trasgressione, che si espresse subito negli anni della lotta e anche dopo, nella stesura di una Costituzione che mette al centro il principio di eguaglianza e di parità uomo-donna. Poi quel protagonismo rifluì, riemerse negli anni del femminismo, per poi appannarsi nuovamente: la cultura maschilista conserva tutta la sua influenza. Per fortuna la nostra Costituzione rimane, anche per i diritti delle donne, una rotta ben definita, da percorrere in modo intelligente per andare avanti.

Ma anche la Costituzione oggi è in discussione. Il prossimo referendum di ottobre riguarda, a mio parere, il suo impianto di fondo. Io non condivido la riforma proposta dal Governo. Rispetto chi non la pensa come me, ma soprattutto mi pongo una domanda: come evitare, dopo il referendum, che la Costituzione sia vissuta, dai vincitori come dai vinti, come una norma di una parte contro un’altra parte? Il rischio concreto è infatti quello di giungere, dopo settant’anni di unione, a una Costituzione che divide, sentita come un bene di parte, di alcuni contro altri.

Come impedirlo? Purtroppo gran parte del danno è stato fatto. Lo si evince guardando alla differenza profonda tra i costituenti di settant’anni fa e quelli di oggi. Chi erano i costituenti del 1946-47? Erano donne e uomini espressione di culture politiche molto diverse tra loro, che seppero dialogare e gettare le basi comuni per la convivenza civile e democratica dell’Italia. Qual era lo spirito che li muoveva? Raccontando della sua esperienza di giovanissimo deputato Vittorio Foa scrisse: ”Vi è stata allora quella che si potrebbe chiamare una mente costituente, una capacità di guardare insieme agli interessi particolari (individuali, di classe o di partito) e agli interessi generali; di guardare all’oggi e insieme anche al domani. I contrasti politici erano molto forti, ma pur nella evidenza di questi contrasti la Costituente riusciva a toccare un livello altro, e questo altro livello era quello della ricerca comune. Era una democrazia plurale, le differenze erano legittime, si trattava di vivere civilmente nella diversità. Convivere, dunque, non significa negare il conflitto, vuol dire saperlo vivere. E dare stabilità alle regole senza però chiuderle di fronte alla storia del futuro”. Quindi la Costituzione fu un risultato a cui si giunse grazie a un confronto ricco, paziente e approfondito e alla graduale confluenza tra le diverse correnti politiche e culturali rappresentate nella Costituente, consapevoli delle loro diversità ma anche e soprattutto della loro missione comune. Le diversità erano grandi, ed erano approfondite e aggravate dalla “guerra fredda” internazionale. O si stava con l’America o si stava con l’Unione Sovietica. Proprio per questo i comunisti e i socialisti furono cacciati dal Governo presieduto dal democristiano Alcide De Gasperi. Ma, nonostante tutto, prevalse il senso della missione comune.

Oggi si sta cambiando la Costituzione in un clima molto diverso, senza la “mente costituente” di cui scriveva Foa. Ripeto, ho rispetto per le diverse sensibilità e opinioni che sono in campo. Io mi batterò per il No, con i miei compagni e amici dell’Anpi, altri faranno scelte diverse. Ma c’è da augurarsi, tutti, che prima o poi il dibattito nel Paese recuperi la “mente costituente” che fin qui è mancata. Perché la Costituzione non può essere connessa a un governo, non può essere identificata con l’atto di un governo. La Costituzione nacque come patto sociale e garanzia di convivenza, non come strumento del potere di una parte. I governi, perché sono espressione non di tutta la politica ma solo di una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra. Solo il popolo e la sua rappresentanza possono essere costituenti.

E allora cerchiamo di esercitare noi, con il voto, la “mente costituente”. Facciamo sì che il referendumsia un’occasione per una lettura e una discussione “di massa” sia della Costituzionein vigore chedella riforma proposta dal Governo. I temi al centro del referendum appartengono ai cittadini, ed è giusto che siano loro a promuoverne o a respingerne le modifiche. Non accettiamo di partecipare a un plebiscito sul Governo Renzi. Dimostriamo di voler essere cittadini, non sudditi. Serve la più ampia, libera e informata discussione di merito. Senza che, grazie ai media, una tesi abbia più esposizione e attenzione dell’altra. Il dibattito costituzionale è, per un popolo, una grande opportunità di unione, non un’arena che registravincitori e sconfitti. Fu così nel 2006, quando Berlusconi indisse un referendum costituzionale che, come quello su cui andremo a votare a ottobre, puntava su un drastico passaggio di potere dal Parlamento all’esecutivo. Il 61% degli italiani difese lo spirito e la lettera della Costituzione, contro il 38%. Fu un voto che sancì una nuova unione. Non a caso molti elettori del centrodestra non seguirono le indicazioni dei loro partiti. Ecco, io spero che questa unione si realizzi anche questa volta, respingendo a grande maggioranza, dopo una grande discussione collettiva, le proposte di modifica. Con il contributo di molti elettori dei partiti di governo.

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La Costituzione è un testo attualissimo, ma ignorato, disapplicato, quando non avversato.
Pensiamo all’eguaglianza, principio fondamentale della Costituzione: l’eguaglianza formale o giuridica, secondo cui tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, e l’eguaglianza sostanziale, secondo cui la legge deve garantire il rispetto della persona umana nella società. O, ancora, pensiamo al diritto al lavoro: la Costituzione attribuisce all’attività lavorativa un ruolo centrale nella vita dello Stato, che non è più soltanto garante dei diritti di libertà di tutti i cittadini, ma è chiamato a intervenire nei rapporti sociali per impedire il predominio del potere economico fondato sul capitale e per consentire una più equa redistribuzione dei beni economici tra le diverse classi sociali. Un ultimo esempio, riguardante la libertà di iniziativa economica privata: essa non è assoluta, ma incontra limiti oggettivi nel fatto che non deve porsi in contrasto con l’utilità sociale e non deve recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La Costituzione vuole cioè impedire che la proprietà del capitale condizioni la società civile e di conseguenza il diritto al lavoro. Nella Costituzione è ben presente la situazione concreta esistente nella società, nella quale il lavoratore è il soggetto debole rispetto all’imprenditore, soggetto forte. E la Costituzione non usa mai a caso le parole: il lavoro è definito “diritto”, mentre l’iniziativa economica è definita “libertà”, peraltro non assoluta.
Questi sono i valori, non attuati, della prima parte della Costituzione. I promotori della riforma sostengono che le modifiche riguardano la seconda parte, la forma di governo, e non toccano la prima. Io penso invece che formalmente sia così, ma non nella sostanza.

Sao Tomè, Diogo Vaz, abitazione    (2015)    (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomè, Diogo Vaz, abitazione
(2015) (foto Giorgio Pagano)

Il nesso tra valori sociali della Costituzione e forma di governo è in realtà stretto, e lo è molto di più da quando è arrivata la “grande crisi” del 2008. La finanza internazionale, responsabile della crisi, si convertì repentinamente all’austerity. Da allora il neoliberismo è penetrato fin dentro le nostre coscienze con il suo “mantra”: contenere il debito, fare le “riforme strutturali” contro il lavoro, limitare i poteri dei Parlamenti.Il 28 maggio 2013 J.P. Morgan, la gigantesca banca di investimenti protagonista nel 2008 della crisi dei subprime, mise in circolazione un documento di 16 pagine in cui si chiedeva espressamente il superamento delle Costituzioni adottate in Europa dopo la caduta del fascismo, per i loro eccessi di rappresentatività politica e di contenuto sociale. La richiesta di J.P. Morgan fu di fatto anche quella della Ue che, impegnata dal 2012 nella politica rudemente deflattiva del Fiscal compact, mise sistematicamente tra parentesi la facoltà di decisione dei Parlamenti nazionali adottando procedure di governo che concentrano tutto il potere nel Consiglio europeo.Ma il Fiscal compact, che obbliga al pareggio di bilancio, di fatto cancella, o comunque ridimensiona assai, l’articolo 3 della Costituzione, quello che recita:“E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Leggiamo quanto scrive lo storico Leonardo Paggi: “Le riforme dell’attuale Governo si collocano inequivocabilmente in questa scia. La limitazione del controllo democratico non è più iniziativa di uno stravagante cacicco, guardato con sospetto da tutta l’Europa come frutto di un ancor più stravagante genio italico. È parte integrante di una strategia internazionale costruita su quelle che vengono chiamate le ‘svalutazioni interne’ secondo cui, non essendo più possibile dopo Maastricht svalutare con il cambio, è indispensabile realizzare gli aumenti di competitività attraverso la limitazione dei diritti sociali (del lavoro, pensionistici e previdenziali)”. E’ evidente l’intreccio tra l’Italicum -la nuova legge elettorale- e la riforma costituzionale; e tra queste riforme e la riforma delle pensioni, la soppressione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e il Jobs act. Lo spostamento di poteri verso l’esecutivo è cioè necessario per fare le “riforme strutturali”, alternative alla prima parte della Costituzione. L’attuazione della prima parte della Costituzione presuppone una forma di governo incardinata su un Parlamento rappresentativo e su uno Stato decentrato. Esattamente quello che viene scardinato da Italicum e riforma costituzionale, che puntano a rafforzare l’esecutivo rispetto al Parlamento e il centralismo statale rispetto ai poteri locali.

C’è un punto che non va nascosto o rimosso: la riforma costituzionale non si può distinguere dall’Italicum. Anche perché è l’Italicum che ”comanda”: è stato approvato prima ancora che la riforma costituzionale, proprio perché tutto fosse chiaro! Del resto sono le caratteristiche dei sistemi elettorali, e le loro opzioni per l’organizzazione della rappresentanza e la traduzione dei voti in seggi, che determinano la vera natura costituzionale del sistema politico, aumentandone o diminuendone il tasso di democraticità. E’ indiscutibile, pertanto, il valore costituzionale delle leggi elettorali, che è sempre stato ben chiaro ai teorici dello Stato di diritto. Oltre 200 anni fa Domenico Romagnosi così si esprimeva: “La teoria delle elezioni altro non è che la teoria della esistenza politica della Costituzione. E’ evidente che quando il diritto elettorale venga radicalmente modificato è la Costituzione che viene posta in discussione”. E’ per questo che sono tra coloro che si battono perché la Corte Costituzionale dichiari l’Italicum incostituzionale, sia per il premio di maggioranza spropositato sia per le liste bloccate. La Corte ha già bocciato il precedente Porcellum: ma l’Italicum ne è una versione peggiorata.

Leggiamo quanto scrive il magistrato Domenico Gallo: “Poiché il sistema politico italiano non è bipolare, né tantomeno bipartitico, il meccanismo congegnato è destinato a produrre naturalmente -soprattutto attraverso il ballottaggio- una fortissima distorsione tra la volontà espressa dal corpo elettorale e i seggi conseguiti dalle singole forze politiche, istituzionalizzando la diseguaglianza dei cittadini nell’esercizio di voto”. Il voto del cittadino di maggioranza può valere fino a quattro volte quello del cittadino di minoranza. Un solo partito avrà in mano le chiavi del governo e della maggioranza parlamentare, potrà eleggere il Presidente della Repubblica e attraverso di lui influire sulla composizione della Corte Costituzionale, neutralizzandone la funzione di controllo.Insomma: troppo potere e nessun contrappeso. Il superamento del bicameralismo perfetto è certamente un obbiettivo condivisibile: ma la riforma costituzionale non supera ma mantiene il bicameralismo, per di più in modo sgangherato e confuso, tenendo in piedi un Senato non eletto dai cittadini, che non si capisce bene che cosa sarà, come ha detto l’ex Presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo. Meglio, a questo punto, il monocameralismo: ma non con l’Italicum, bensì con una legge elettorale proporzionale (la posizione di Berlinguer e Ingrao è sempre stata questa).

Il potere va concentrandosi e allontanandosi dai cittadini comuni, la democrazia si sta svuotando a vantaggio di ristrette oligarchie. Non c’è da preoccuparsi?

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Un anno fa ci lasciava Luigi Fiori, il comandante “Fra Diavolo”, mio caro amico e compagno. Dedicò gli ultimi anni della sua vita a divulgare la Costituzione, soprattutto tra i ragazzi delle scuole.E’ stato un combattente indomito per la libertà e la democrazia. Resteranno sempre in me queste sue parole: “Io non mi arrendo mai, spero che anche questa volta ci se la faccia, magari all’ultimo minuto, a salvare la Costituzione, a salvare quanto di buono c’è in questo Paese. Quando ai monti con la mia brigata subivo un rastrellamento da parte dei tedeschi, che si muovevano in migliaia, ci sbaragliavano (in molti morivano e molti altri dovevano scappare) fino a ridurci a uno sparuto gruppo di uomini. Tuttavia dopo quelle mazzate non ci demoralizzavamo e iniziavamo dal giorno dopo a ricomporre la brigata, finché non tornavamo più forti di prima. E’ successo diverse volte ,ma non mollavamo mai. Ecco è per questo che io dico di non arrendervi mai. Coraggio ragazzi!”

Stamani ricorderò “Fra Diavolo” nella sua Sarzana, all’assemblea annuale dell’Associazione degli Invalidi di Guerra. Ieri l’ho ricordato a Massa, al Memofest, nel corso di un incontro in cui, con Marco Rovelli, discutevamo della Resistenza italiana e della lotta del popolo curdo per la libertà e la democrazia. Alla fine ho cantato “Bella ciao” -la canzone che oggi intonano i partigiani curdi- con Marco e molti altri, pensando alle tante volte in cui l’ho cantata insieme a Luigi. Poi il concerto di Francesco De Gregori e quei bellissimi versi di “La Storia siamo noi”:

perché è la gente che fa la storia
quando è il momento di scegliere
e di andare te la ritrovi
tutta con gli occhi aperti
che sanno benissimo cosa fare
quelli che hanno letto un milione di libri
e quelli che non sanno nemmeno parlare

Sì, c’è da preoccuparci, e dobbiamo impegnarci in prima persona. Essere cittadini, non sudditi, e non mollare. Perché la storia siamo noi.

Post scriptum:
Dedico questo articolo a unadelle icone indelebilidella mia gioventù: Muhammad Ali.Il campione più grande se ne è tornato in cielo. E’ stato davvero il più grande, anche oltre il ring. Cambiò nome, vita, religione e il mondo del XX secolo: fu una figura esemplare della lotta per l’eguaglianza, la libertà e la pace.Una volta disse: ”I campioni non si fanno nelle palestre ma con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione”.

lucidellacitta2011@gmail.com

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