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Il principio di Archimede

a cura di in data 23 Marzo 2022 – 21:58

Didascalia: Dario Lanzardo con il libro, 2006
(foto archivio famiglia Lanzardo)

Città della Spezia, 20 febbraio 2022

DALL’INCUBO DEL VENTRE DELLA NAVE ALLO SBARCO DI SALVEZZA
Oggi scriverò di un romanzo, di un graphic novel, di una mostra. Ma soprattutto parlerò della vita, che diventa tutto questo. Il titolo è “Il principio di Archimede”.
All’origine c’è il romanzo, scritto nel 2006 da Dario Lanzardo, un grande spezzino emigrato a Torino, dove diventò scrittore interessato all’economia, alla sociologia e alla politica, e poi fotografo. Fotografo lo era già stato da ragazzo, nella sua città natale. Alla metà degli anni Cinquanta aveva pubblicato numerose fotografie su diversi aspetti della vita cittadina nella rubrica “Occhio sulla città” della cronaca spezzina del “Nuovo Corriere” di Firenze, diretto da Romano Bilenchi.
“Il principio di Archimede” è un libro bello, si legge tutto d’un fiato. Parla – scrisse Edoarda Masi quando uscì – “con un’autenticità di linguaggio e una ‘verità’ che è raro trovare in molte opere di letterati di professione”.
Il testo reca in epigrafe: “Una nave immersa nell’acqua del mare riceve una spinta verso l’alto uguale e contraria a quella delle passioni umane che la trascinano verso il fondo”. Dario spiega il principio di Archimede raccontando come imparò a nuotare: come capitò a tanti di noi. A me a Lerici, ad opera di mio padre, su una barca al largo. A Dario e a suo fratello pure, ad opera di un pescatore a cui era stato affidato dalla madre. Il pescatore raccontò ai due bambini del principio di Archimede, che spingeva verso l’alto tutti quelli che si immergevano in acqua. “E’ una forza amica come una mano che ti solleva, se però non hai paura”, aveva aggiunto.
Nell’epigrafe e nel principio di Archimede va trovata la chiave di lettura del libro. La storia narrata è quella, con una forte componente autobiografica, del primo viaggio di un allievo ufficiale appena uscito dall’Istituto Nautico in una scassata imbarcazione Liberty, residuato bellico della Seconda Guerra Mondiale. Di queste navi ne furono costruite dagli americani tante e in fretta, per usarle per il trasporto di truppe e armi. Invece di essere demolite, a guerra finita furono acquistate a pochi soldi da armatori italiani senza scrupoli a uso mercantile. Venivano sfruttate per il massimo profitto fino alla fine, senza mai manutenerle, mettendo così a rischio l’equipaggio, che operava in condizioni miserevoli.
Il viaggio del romanzo è una traversata dal porto di Genova a quello di Baltimora e ritorno, dove il mare aperto si vede poco, è soprattutto incubo e pericolo, nella piccola cabina dove entra anche l’acqua o nel ventre della sala macchina, dove è addetto Davide, l’allievo ufficiale.
La nave, con l’odioso comandante, con la difficile ricerca da parte di Davide dell’amicizia e della solidarietà con gli altri naviganti, con le nausee, le malattie, le paure del giovane protagonista sono, scrisse la Masi, “l’allegoria di un suo angoscioso viaggio interiore”, di un suo arrivare all’orlo della morte e infine trovare una raggiunta maturità. Il principio di Archimede ha funzionato anche questa volta: c’è stata una spinta verso l’alto, verso uno sbarco di salvezza.

L’ETERNA LOTTA TRA AUTORITARISMO E LIBERTA’. DAI DURI ANNI CINQUANTA AD OGGI
Il libro di Lanzardo è dunque un “romanzo di formazione”.
L’allegoria è personale, interiore, e insieme sociale e politica, come scrisse Giovanni de Luna:
“Quello che mi ha prodotto un coinvolgimento totale è stata la storia della nave, il cargo, e la vicenda del protagonista su questa nave: questa nave è più di una metafora, questa nave è la quasi concretizzazione plastica, evidente, palpitante di quella che era l’Italia degli anni Cinquanta. Quella nave è la rappresentazione più simbolicamente efficace di cosa era la stratificazione di classe dell’Italia degli anni Cinquanta: dagli inferi in cui si aggirano i mozzi delle macchine, unti di grasso, di olio, di problemi, parlano un calabrese stretto, ecc. sino a salire su su su fino a questa specie di empireo dove si staglia la persona del sovrano assoluto di questa nave, il comandante, che addirittura mangia nella mensa separato da un paravento. Proprio è in verticale quella che noi potremo immaginare come la stratificazione di classe più evidente, più simbolicamente efficace che si potesse raccontare, immaginare. E quello che mi ha colpito è che dentro questo luogo così segnato da questa verticalità della stratificazione sociale c’è però un luogo che è della libertà, della democrazia, che è la sala mensa, dove invece le gerarchie si frangono, sino a un certo punto perché il capitano non mangia con gli ufficiali, però si apre la discussione, c’è una palestra di democrazia, di confronto, dove il giovane Davide fa le sue prime prove di cosa vuol dire essere all’opposizione, pensarla in maniera diversa. Questi due spazi, lo spazio della libertà e lo spazio della gerarchia e della disciplina, sono una palestra simbolica straordinaria; perché questa nave a un certo punto trascende il percorso di Davide per diventare veramente una metafora dell’Italia degli anni Cinquanta. E’ evidente che l’ambiente degli anni Cinquanta c’è nell’ambientazione, nella nave liberty, nave di guerra, navi poi riciclate come mercantili, come cargo, c’è nelle rovine dell’Italia: insomma spunti materiali, le macerie, le rovine, le tracce della guerra ci sono dappertutto; ma soprattutto c’è un’Italia che dal fascismo aveva ereditato non tanto le riforme della politica – evidentemente il regime non c’era più – e neanche tanto le cose su cui spesso si mette l’accento: ad esempio che lo stato era rimasto praticamente intatto, magistratura, carabinieri, tutto l’apparato del fascismo era rimasto nello stato repubblicano – ma aveva ereditato il principio gerarchico autoritario su cui il fascismo si era retto”.
Questa storia ci fa respirare la vita dei duri anni Cinquanta ma, per tanti aspetti, è una storia di ogni tempo, tutt’altro che fuori dal tempo attuale. Basti pensare a quanto è sfruttato oggi il lavoro, ai morti sul lavoro, a come si lavora ancora oggi in tante navi da crociera.

Marco D’Aponte con il libro, 2019
(foto archivio D’Aponte)

DA UN MEZZO ESPRESSIVO A UN ALTRO
Non avevo letto “Il principio di Archimede” quando era uscito. Facevo il Sindaco, non trovavo il tempo -sbagliando- di leggere tutta la letteratura che avrei voluto, privilegiavo la saggistica… Ho letto il libro da poco grazie a Marco D’Aponte, l’illustratore, autore di fumetti e pittore che mi ha invitato a Sestri Levante a visitare la mostra, a gennaio. Una bellissima mostra, in cui sono esposte le fotografie che Dario Lanzardo scattò in un viaggio che fece per davvero da marittimo appena uscito dal Nautico, dalla primavera 1955 all’autunno 1956: Genova – Norfolk e ritorno, la nave era il cargo Liberty Punta Amica, il carico era polvere di carbone, mi ha spiegato la moglie Liliana. Nella mostra ci sono poi le tavole originali del graphic novel, disegni e dipinti di D’Aponte ispirati ai temi del mare, della nave, del viaggio. Insieme al romanzo ho letto anche il graphic novel, pubblicato nel 2011. La storia di formazione, ha scritto Goffredo Fofi, “è passata da un mezzo espressivo a un altro mantenendo tutta la sua poesia, il suo rigore. La sua inquietudine”

UNA LEICA, DUE GENERAZIONI
Nel 1944 Dario Lanzardo aveva dieci anni – era nato nel 1934 a Migliarina, in via Michele Rossi, al confine con il Canaletto – e viveva con i genitori a Fosdinovo, dove la famiglia era sfollata dopo i grandi bombardamenti che avevano colpito la città. Il padre era un fotografo ambulante e il reddito della famiglia si fondava tutto su una preziosa Leica. Il padre si raccomandò con la moglie che, qualsiasi cosa fosse accaduta, non avrebbe mai dovuto consegnare la Leica a nessuno e per nessun motivo. Pochi giorni dopo fu catturato dai tedeschi durante un rastrellamento (riuscì poi avventurosamente a fuggire dal treno che lo stava portando a Mauthausen) e la moglie si trovò nella difficile situazione di mettere in atto le indicazioni del marito: proteggere ad ogni costo la Leica che nel frattempo era finita, perfettamente sigillata, nell’orto, sotto un cumulo di letame.
Il comando tedesco conosceva bene il fotografo e la sua macchina, e un ufficiale si presentò poco tempo dopo in casa Lanzardo per chiedere la consegna della Leica. La madre resistette finché poté, ma alla fine sotto la minaccia di un mitra spianato dovette consegnare la macchina fotografica.
Dario Lanzardo, pur senza la Leica paterna, fece anche lui – come abbiamo visto – il fotografo. Poi smise, si dedicò ad altre passioni. Cominciò, come Davide, a combattere contro un’autorità destituita di legittimità. In “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, Liliana Guazzo Lanzardo ha raccontato il loro amore giovanile, la loro comune esperienza nel Circolo Croce-Gramsci, nell’Unione Socialista Indipendente (piccolo gruppo antistalinista), poi nel PSI sulle posizioni dell’operaista Raniero Panzieri, fino al trasferimento a Torino, nel 1959. Qui lavorarono fianco a fianco con Panzieri, che uscì dal PSI e fondò la rivista “Quaderni Rossi”, e si dedicarono allo studio della fabbrica e delle lotte sociali.
Fu proprio a Torino, nel 1973, durante una manifestazione per l’occupazione delle case, che Dario Lanzardo incontrò un amico che gli propose di comprare una Leica usata identica a quella del padre (chissà, forse la stessa), completa di rullino e dall’origine piuttosto incerta. Con quella macchina Lanzardo ricominciò, quindici anni dopo, la sua attività di fotografo, documentando proprio quegli scontri di piazza in cui non mancò di prendersi anche qualche manganellata. Fotografò le lotte operaie degli anni Settanta e la “rivoluzione dei garofani” del 1975 in Portogallo. Dal 1980 si dedicò interamente alla fotografia e ai libri fotografici, interessandosi al territorio torinese ma anche alla cultura giovanile, all’arte contemporanea e al set cinematografico, e sperimentando pure la fotofavola.
La Leica ritorna protagonista de “Il principio di Archimede”, romanzo e graphic novel (è pure nella mostra).
Davide la porta sempre con sé. La Leica fa da trait d’union dell’intera narrazione, da ponte tra due generazioni. E’ lo strumento dello sguardo che testimonia e documenta il mondo, e lo comprende meglio. D’Aponte idea un plot creativo che conclude la storia con il ritrovamento del rullino sottratto a Davide dai militari franchisti di Ceuta, in Marocco, durante la navigazione e consegnato proprio dal padre, che lo accoglie al momento dello sbarco. Il viaggio di Dario non è finito allora, da lì è cominciato.

lucidellacitta2011@gmail.com

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