Presentazione alla Spezia di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Venerdì 5 aprile ore 17 alla Biblioteca Civica Arzelà di Ponzano Magra
28 Marzo 2024 – 08:58

Presentazione alla Spezia di“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”di Dino GrassiVenerdì 5 aprile ore 17Biblioteca Civica Arzelà – PONZANO MAGRA
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“Il Mosca” e il “disastro” del 3 Agosto 1944

a cura di in data 31 Agosto 2016 – 16:30
Sao Tomè, spiaggia di Neves, bambini - 2015 (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomè, spiaggia di Neves, bambini – 2015 (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 28 agosto 2016 – Giovanni Uras, insieme ad altri ragazzi del Limone, raggiunse i partigiani della banda garibaldina “Vanni” nel giugno 1944, ad Adelano di Zeri. Aveva 17 anni, gli diedero come nome di battaglia “Il Mosca”.

In lui è vivissimo il ricordo del rastrellamento dell’agosto 1944: “Fu il primo grosso rastrellamento della zona: un vero e proprio disastro!”, racconta nel suo diario raccolto da Aldo Mazzola. Certamente fu un duro colpo alla Resistenza delle nostre valli e provocò molte vittime, tra i partigiani ma anche nella popolazione civile.

Tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944 si erano formate le prime bande dei ribelli. Nella zona montana tra Vara e Magra si formò, nel giugno-luglio 1944, un’area libera da presenze fasciste che comprendeva decine di piccoli paesi. Questa zona aveva il suo centro nei monti Gottero e Picchiara e, sebbene con confini variabili, finì per inglobare buona parte della Val di Vara, Zeri e parte degli altri comuni montani della riva destra del Magra. L’area liberata si rivelò molto importante per l’approvvigionamento delle bande e per il reclutamento dei giovani della zona. Ci fu anche una vittima illustre, il podestà di Sesta Godano Tullio Bertoni, responsabile del partito fascista repubblichino in Val di Vara, uno dei responsabili della morte, a Chiusola, dell’eroe Piero Borrotzu. Bertoni fu catturato e fucilato; a lui fu poi intitolata la Brigata Nera della Spezia.

Fu subito vinta la resistenza, a Noce di Zeri, di un piccolo distaccamentodella “Vanni”; ma tutta la “Vanni” si disperse quasi subito. Anche la banda di “Giustizia e Libertà” comandata da Vero Del Carpio “Il Boia” dovette abbandonare in tutta fretta l’accampamento del monte Picchiara, e tutti i materiali lanciati sul campo dagli aviolanci degli alleati. Solo la banda giellista guidata da Daniele Bucchioni “Dany” a Calice e soprattutto la banda “Cento Croci”, una banda “mista”, garibaldina e autonoma, sul monte Scassella, poco più a nord del monte Gottero, si fecero onore resistendo e contrattaccando, e permettendo così ai resti delle altre brigate di ripiegare. Fu una sconfitta pesanteper i partigiani, che lamentarono almeno cinquanta vittime.L’area rastrellata, in particolare il territorio di Zeri, fu teatro di violenze anche verso la popolazione civile: 19 civili furono uccisi nei paesi o mentre si davano alla fuga. Tra questi don Angelo Quiligotti, direttore del ginnasio del seminario di Pontremoli, ucciso insieme ad altri civili sulle pendici del monte Gottero. Tutte le frazioni del Comune di Zeri furono totalmente o parzialmente incendiate e lo scarso bestiame requisito.

Ma leggiamo il racconto del “Mosca”: “Il 2 agosto dormii, con altri compagni, in una cascina a Castello di Coloretta, dove ero andato a rifornirmi di pane. All’alba del 3 agosto mi svegliarono dei sordi boati, esplosioni, raffiche di mitraglia, corsi sul terrazzo della cascina, che dominava tutta la vallata, e mi si presentò uno spettacolo impressionante: la vallata era invasa dal fumo e dalle fiamme che si levavano in cielo dalle case che crollavano come castelli di sabbia.

Sao Tomè, Monte Cafè, uomo con un gallo - 2015 (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomè, Monte Cafè, uomo con un gallo – 2015 (foto Giorgio Pagano)

Con i binocoli osservammo gruppi di persone che fuggivano verso i monti più alti che erano alle nostre spalle con la speranza di salvarsi, donne, uomini e bambini che si inerpicavano sulla montagna tra alberi e ripidi strapiombi. Camminavano senza sosta cercando di rimanere uniti verso il paese di Albareto, al confine con l’Emilia. Di fronte a questo orribile spettacolo eravamo impotenti: non potevamo essere di aiuto in alcun modo  a quei poveretti. Solo più tardi, quando alcuni di quei fuggiaschi passarono nel nostro borgo, cercammo di aiutarli con qualche scatoletta e un po’ di pane: ma la maggior parte non pensava ad altro che a fuggire da quell’inferno e a salvare la pelle. Cessato il fuoco dei mortai, rientrai per unirmi ai compagni, ma non trovai più nessuno. Persino i proprietari della casa erano spariti. Rimasto solo, decisi di andare al comando che distava un paio di km. Raggiunto il comando vidi uno spettacolo desolante: animali liberi in mezzo al paese, granaglie sparse per le strade, poche persone e nessuno dei nostri comandanti. Primo Battistini “Tullio”, il capo principale, mancava da due giorni: dicevano che era andato dall’amica vicino a Pontremoli; Luciano Scotti, il vice, non lo vidi per nulla, dicevano che si era messo in salvo in un buco. Chi trovai fu soltanto il commissario politico Giovanni Albertini “Luciano”, che mi pregò di tornare indietro e di tenere il contatto di retroguardia. Mi augurò buona fortuna perché i nazifascisti erano dappertutto. Con me rimasero due partigiani arrivati il giorno prima, con solo due fucili “91”, che si notavano a km di distanza! Per sfuggire a una pattuglia tedesca ci gettammo giù per una scarpata, mentre loro ci inseguivano sparando raffiche di mitragliatore. Riuscii a salvarmi, ma non rividi i miei compagni: non li conoscevo né sapevo i loro nomi, chissà che fine hanno fatto, non ho mai saputo più nulla di loro. Mi misi in marcia verso il mio distaccamento. Raggiunti i miei compagni o quello che era rimasto di loro, ci trasferimmo sul Gottero di notte per nasconderci nei boschi. Ci mettemmo in marcia con i muli carichi di ogni cosa che si poteva trasportare. Come cibo avevamo solo un sacchetto di zucchero biondo”.

Il racconto di Giovanni è una testimonianza di quanto grande fu lo sbandamento e di quanto scarsa fu la capacità di reazione dei partigiani. La spiegazione migliore del “disastro” è quella, spietata ma lucida, presente in una relazione comunista successiva di alcuni mesi. Il segretario del Pci spezzino Antonio Borgatti, in questa relazione, imputava la crisi ai problemi creati dalla crescita accelerata e caotica del mondo ribelle.

In quell’agosto del 1944 i nazifascisti si illusero di aver stroncato il movimento delle prime bande partigiane. Ma dalla repressione e dallo sbandamento nacque un movimento nuovo, organizzato e disciplinato. Dalle bande ribelli nacque l’esercito della Liberazione: Brigate e Divisioni messe sotto la diretta influenza del CLN, del Comandi unico e, di fatto, dei partiti, in primo piano il Partito comunista e il Partito d’azione.

Già alla fine del luglio 1944 era stata costituita la I Divisione “Liguria”, che assunse in seguito il nome di IV Zona. Comandante era stato nominato il colonnello del regio esercito Mario Fontana “Turchi”, socialista (il nome di battaglia era ironico, perché era il cognome del fascista Capo della provincia). Il Comando unico si ricostituì a fine agosto, ed estese gradualmente la sua funzione e la sua autorità grazie essenzialmente alle capacità di Fontana. Anche se il suo disegno di “militarizzazione” non si realizzò fino in fondo: la banda dotata di una sua autonomia, ribattezzata Battaglione o Distaccamento o Compagnia, rimase pur sempre l’unità tattica fondamentale della nostra Resistenza.

Alla “militarizzazione” si accompagnò la “politicizzazione”, con un crescente ruolo dei partiti, che fecero da contrappeso alle spinte anarchico-individualistiche e localistiche. I legami con i partiti, ha scritto lo storico Claudio Pavone, “operarono come fattori di unità perché non solo trasmisero alla base la politica unitaria del CLN, ma alimentarono la convinzione che fosse l’impegno politico in quanto tale a costituire il cemento sostanziale tra i partigiani”.

La Resistenza fu quindi un movimento “dal basso” e “dall’alto”: un moto popolare spontaneo, che fu poi guidato e interpretato dai CLN e dai partiti. Se ci pensiamo bene, la storia dell’Italia ha progredito solo quando queste due spinte, “dal basso” e “dall’alto”, hanno saputo intrecciarsi e coniugarsi. Oggi mancano entrambe le spinte. Tuttavia germogli nella società e nella cultura, nonostante tutto, ve ne sono. Mentre “dall’alto” dei poteri costituitiavanza solamente il deserto dei valori e delle idee. Tocca, quindi, a noi: aun movimento “dal basso” che crei nuove forme di potere democratico. In questo cammino le virtù civiche e morali delle ragazze e dei ragazzi della Resistenza sono e saranno il nostro faro.

Post scriptum:
sulle vicende raccontate in questo articolo si vedano anche, in questa rubrica:
“Il comandante ‘Dany’ e il rastrellamento del 3 agosto 1944” (29 luglio 2012)
“Il Battaglione ‘Vanni’, una storia ancora da raccontare” (15 marzo 2015)
“Il colonnello guerrigliero” (10 maggio 2015)
“’Tullio’, eroe e fuorilegge” (21 giugno 2015)

lucidellacitta2011@gmail.com

 

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