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Giovanni Giudici e la vita presa per il verso giusto

a cura di in data 10 Luglio 2012 – 09:41

La Spezia, Tramonti (2011) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia – 8 Luglio 2012 – Peccato che nessuno abbia ricordato, nel suo Golfo dei Poeti, il grande poeta Giovanni Giudici a un anno dalla scomparsa. Eppure Giovanni era e si sentiva spezzino e ligure, anche dopo aver vissuto sempre altrove, in particolare a Roma. Una delle proprie poesie che più amava, cominciava così: “In quel pontificio collegio – di quell’Italia fascista – dove patii per la prima volta – il parlare diverso – e la mancanza del mare”. Quella mancanza che accomuna noi spezzini e liguri ogni volta che non lo vediamo e respiriamo. Le Grazie, il paese natio, rimase sempre il luogo delle vacanza, e poi del ritiro in età avanzata (ma prima trascorse un decennio alla Serra di Lerici, la terra dell’amico poeta Paolo Bertolani). Il nostro Golfo e il ricordo dell’educazione cattolica -proprio “L’educazione cattolica” s’intitolava una sua raccolta giovanile- si mescoleranno per sempre alla sua sensibilità. Come ha scritto Nello Ajello, “la successiva adesione all’ideologia marxista rappresenterà una variante, soffusa di un’ironia assai personale, rispetto a questo nucleo di pensieri e d’immagini”. Basta leggere le sue poesie per capire che l’aggettivo “ligure” non è in lui una mera specificazione anagrafica (su “Giovanni Giudici un poeta nel Golfo” ho scritto un anno fa sul Secolo XIX; l’articolo è leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com).Che quella di Giudici sia stata una delle grandi voci del Novecento, che ha interpretato fino in fondo la sua crisi, lo dimostra il convegno che lo ha ricordato a Milano, dove pure visse, promosso dall’Università degli Studi e intitolato “Metti in versi la vita”, a cui hanno partecipato insigni studiosi. Tra questi Carlo Ossola, che ha sottolineato che “la sua poesia tiene insieme, come pochi altri poeti del Novecento, metafisica e diario, l’elezione dell’istante e del sempre, cronaca ed eternità”. E’ vero: Giudici ha saputo tratteggiare la condizione dell’uomo anonimo, impegnato quotidianamente nei suoi piccoli affari e nei suoi crucci ordinari. Come, per citare una poesia ambientata a Spezia, in “Piazza Saint Bon”, dedicata al rapporto creditore-debitore.
Al convegno milanese ha partecipato anche Carlo Di Alesio, lo studioso amico a cui Giovanni sottoponeva tutti i suoi versi. Carlo ha anche curato per la rivista “Istmi” la pubblicazione del “Cahier 1946”, un quaderno di appunti di grande interesse, un “ritratto di artista giovane”. Il “Cahier” arriva fino al 7 giugno, quando Giudici commenta la vittoria della Repubblica: “Si può dire che la Repubblica è nata. Ma non è stato possibile per me partecipare all’evento con quella gioia che sarebbe stato giusto esprimere. La mia situazione sentimentale è veramente triste…”. Il riferimento è alla passione per la giovanissima Mara, che cinquant’anni dopo sarà protagonista “senza dedica” della poesia “Primo amore”. Come scrive Di Alesio “il rapporto di Giudici con la politica attiva non è all’epoca, ben al di là della delusione momentanea, di coinvolgimento totale, come non lo sarà mai per tutto il corso di un’esistenza che pur lo vedrà spesso partecipe persuaso e talora appassionato della vita civile e politica italiana”. Scrive Giudici nel “Cahier” che la sua vocazione è “fare ancora la politica, ma come la facevo un anno fa, organizzando scioperi, partecipando a complotti inevitabilmente naufragati… La politica è disgustosa; ma presa così è quasi divertente. Ma non fine a se stessa: solo un aspetto della mia esistenza. Vivere e ricreare la vita. Ma la vita dell’uomo vale molto di più che tutti i trionfi politici, vale molto di più sentire sulla tua guancia la morbida freschezza della guancia della donna che ami”.
Ho conosciuto Giovanni molti anni dopo, consigliere comunale eletto come indipendente del Pci a Spezia dal 1990 al 1992: non aveva cambiato idea. Amava citare le parole con cui Giuseppe Dossetti sigillò il suo distacco da un partito, la Dc, del quale era stato vicesegretario: ”Ho tentato invano di fare attecchire un germoglio cristiano su questa radice pagana della politica”. Eravamo nella fase terminale delle vecchie Giunte di sinistra, logorate da Tangentopoli e dalla crisi del Psi. Ne uscimmo solo nel ’93, con le elezioni anticipate e con il primo sindaco eletto direttamente dal popolo, Lucio Rosaia. Nel ’92, finita l’era del sindaco socialista Burrafato, tentammo di eleggere in Consiglio come Sindaco Flavio “Walter” Bertone; ci riuscimmo, ma senza avere una vera maggioranza. Giovanni fece due interventi acuti e brillanti, uno a luglio, l’altro a dicembre, che meritano di essere riletti. Nel primo spiegò che votava Bertone per disciplina di partito, e che avrebbe voluto un altro Sindaco capace di coinvolgere tutta la sinistra, anche i Verdi e altri che non lo votarono. Il suo fu un appello a “un tentativo di rottura con l’inerzia storica che ha fatto di Spezia una città colonizzata”, a delineare un altro modello di sviluppo per la città. Un invito a “non tirare a campare” con l’elezione di una Giunta che, disse citando Nenni su un Governo Fanfani, “sarebbe stata più triste di un’aringa affumicata”. Il tentativo di Bertone durò pochi mesi, ma fece ricredere Giudici, che nel suo secondo intervento salutò “Walter” con affetto e solidarietà, descrivendolo come un “cireneo” che portava la croce del difficile governo della città. Caduto Bertone avrei potuto facilmente diventare Sindaco: sarebbe bastato chiedere i voti e fare qualche promessa a qualche consigliere comunale… La maggioranza dei consiglieri non voleva, infatti, le elezioni anticipate. Ma ritenni giusto porre fine a un’esperienza che non aveva più nulla da dare, e aprire una fase nuova, usando subito la nuova legge sull’elezione diretta del Sindaco. Con nuovi alleati e programmi. Giovanni mi disse più volte che avrei dovuto essere il candidato di questa nuova sinistra, ma io non ne ero convinto: proposi un candidato della società civile, perché la svolta sarebbe stata ancora più netta. Vincemmo contro tutti, anche contro amici e compagni socialisti, popolari ex Dc e “rifondaroli” con cui poi, dopo l’era di Rosaia, governai dieci anni. Giudici, pur non essendo convinto fino in fondo, mi sostenne e mi incoraggiò.
Oggi mi fanno riflettere le sue parole sulla politica, scritte nel “Cahier” quando aveva appena 21 anni. Io ho nostalgia di come si faceva politica una volta: c’erano più passione disinteressata, più genuinità, più umanità. Meno personalismi, meno cinismo. Sono per tornare a quei “fondamentali”, aggiornandoli all’epoca in cui viviamo. E’ una nostalgia come sentimento positivo, che non ti imprigiona al passato ma ti spinge a fare meglio nel presente e nel futuro. E’ la tesi, che condivido, di “Nostalgia canaglia”, il libretto scritto da due protagonisti della sinistra italiana, Franco Giordano e Peppino Caldarola. Ma nel contempo vedo bene tutti i limiti di un rapporto totalizzante con la politica come quello novecentesco, che sacrifica le relazioni umane, quella “vita dell’uomo che vale molto di più che tutti i trofei politici”. Che corre il rischio di una desertificazione dell’animo. I politici vivono spesso in un mondo chiuso, in cui esistono solo loro, con i loro “amici” e “nemici”, veri o inventati che siano. Ma se aspiri a cambiare il mondo, devi stare nel mondo. Mettere al centro sempre la persona, la vita delle persone e anche la tua vita.

lucidellacitta2011@gmail.com

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