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Fine della civiltà contadina e fine della modernità. Riflessioni dal monte Gottero

a cura di in data 4 Agosto 2019 – 11:38
Alta via dei monti liguri, veduta della Val di Vara e del golfo della Spezia dalla vetta del monte Gottero  (2015) (foto Giorgio Pagano)

Alta via dei monti liguri, veduta della Val di Vara e del golfo della Spezia dalla vetta del monte Gottero
(2015) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 28 luglio 2019 – Ieri ero sul monte Pitone, alle pendici del monte Gottero, la nostra montagna più alta. Ed anche la montagna più sacra, perché simbolo della Resistenza e dei suoi immani sacrifici. Abbiamo commemorato, come ogni anno, il tragico rastrellamento nazifascista del 3 agosto 1944, che diede un duro colpo alla Resistenza delle nostre valli e provocò molte vittime, tra i partigiani ma anche nella popolazione civile. Fu in particolare il territorio del Comune di Zeri ad essere colpito: quasi tutte le frazioni furono totalmente o parzialmente incendiate e lo scarso bestiame requisito. In totale le vittime furono almeno cinquanta: 19 civili furono uccisi nei paesi dello Zerasco, mentre si davano alla fuga. Tra questi don Angelo Quiligotti, Direttore del Ginnasio del Seminario di Pontremoli.
Ecco la testimonianza di Piera Malachina, contadina di Montelama di Zeri:

Quella mattina dovevamo andare a tagliare il grano su a monte Vaio, io ero rimasta indietro perché dovevo preparare da mangiare per tutti. Mia mamma con mia sorella Fede erano partite prima con la traggia (mezzo di trasporto in legno trascinato da buoi che si usava per portare fieno o fasci di grano), con me c’era mio babbo. Noi eravamo quasi a metà strada e vediamo dalla parte di Pradalinara molti uomini, qualcuno spara una specie di razzo che cade in una casa a Montelama e l’incendia, che paura, a Castoglio c’erano delle case che bruciavano e alla Chiesa pure. Mio babbo parte di corsa per andare a riprendere la sua famiglia più avanti. Io intanto arrivo in cima dove si vede la vallata di Zeri e verso Noce si sentono i colpi del ta-pum, spari, scoppi e fumo; bruciano i paesi di Noce e di Patigno, qui brucia anche la sede comunale.
Incrociamo dei partigiani in fuga che ci dicono dei tedeschi e loro fuggono verso monte Picchiara.
Intanto mio babbo raggiunge la mamma che piangeva, stacca la traggia e gira i buoi tornando verso casa.
Arrivati in paese il babbo ci fa portare le bestie giù nel canalone assieme a quelle degli altri del paese, perché i nemici viaggiavano solo sui crinali mi disse, ed era vero; in seguito ci fa preparare della pattona e del pane nei testi per i duri giorni che si prospettavano. Quella notte dormimmo vestiti, con le scarpe, pronti a tutto.
Per fortuna il nostro paese non fu toccato, ma la sera dopo per sicurezza andammo a dormire in un seccatoio alle pendici del monte Picchiara. Eravamo circa una trentina di persone del paese.

E’ una testimonianza che ci dà il senso dello sbandamento e della scarsa capacità di reazione dei partigiani al rastrellamento. Una crisi da addebitarsi, fondamentalmente, ai problemi creati dalla crescita accelerata e caotica del mondo dei “ribelli”. Ma in quell’agosto del 1944 i nazifascisti si illusero. Pensavano di aver stroncato le prime bande. Ma dalla repressione e dalla sconfitta nacque un movimento nuovo, organizzato e disciplinato. Dalle prime bande nacque l’esercito della Liberazione: Brigate e Divisioni messe sotto la diretta influenza del CLN e di un Comando unico. Fu la scelta che contribuì a portare alla vittoria del 25 aprile 1945. Naturalmente da sola non sarebbe bastata. Il successo della Resistenza armata si spiega infatti solo con il consenso popolare, con la corposità e l’intensità della Resistenza civile e sociale. Quella degli operai, dei contadini, delle donne, dei sacerdoti.

LA SCOPERTA DELLA “STRADA DEI CARRELLI”
Ieri, per la prima volta, non era alla manifestazione del monte Pitone una delle “anime” organizzatrici: Quinto Borrini di Zeri, scomparso pochi mesi fa. Lo abbiamo ricordato commossi. Fu per me un collaboratore preziosissimo nella ricerca delle testimonianze delle donne contadine dello Zerasco sostenitrici dei partigiani, raccolte insieme alle altre nel libro “Sebben che siamo donne”.
L’altra “anima” della manifestazione è Tonino Tosi di Chiusola di Sesta Godano. Tonino, ieri, alla fine della manifestazione, ci ha mostrato alcuni metri di binari, che il Comune di Sesta Godano ha voluto collocare vicino al cippo ai caduti, con un pannello informativo. Sono stati trovati, di recente, da Giorgio e Roberto Bertoni, nascosti da due secoli di vegetazione e di terra. Si tratta di quello che rimane della “strada dei carrelli”, una via ferrata che nell’Ottocento veniva utilizzata per il trasporto del legname del Gottero. Era una strada posta a 1.100 metri d’altezza, quasi pianeggiante, nella quale il legname veniva portato fino ad una parete scoscesa, da cui veniva calato per essere poi portato nel torrente sottostante. Qui il legname, sfruttando la spinta di una piena creata da una diga artificiale, raggiungeva il fondo valle.
Il Sindaco di Sesta Godano Marco Traversone ha spiegato il grande progetto di valorizzazione del monte Gottero, finanziato dal “Piano di Sviluppo Rurale” per oltre un milione di euro, a cui Tosi si è dedicato per anni: lo sviluppo della sentieristica, il recupero del patrimonio boschivo -decidendo, uno per uno, quali alberi potranno essere tagliati e quali no-, un rifugio per escursionisti alla Foce dei Tre Confini, il recupero del Centro ittico di Chiusola per le trote…

Alta via dei monti liguri, vetta del monte Gottero, la croce in ferro in memoria dell’Anno Santo 1933  (2015) (foto Giorgio Pagano)

Alta via dei monti liguri, vetta del monte Gottero, la croce in ferro in memoria dell’Anno Santo 1933
(2015) (foto Giorgio Pagano)

PER UNA NUOVA NASCITA DI CIO’ CHE RESTA
Qualche mese fa sono stato a Reggio Calabria a presentare “Sebben che siamo donne”: una delle partigiane protagoniste del libro, Giuseppina Russo, era infatti calabrese, come il marito Pietro Perpiglia, partigiano e dirigente del CLN per il PCI. Ho visto l’Aspromonte abbandonato. L’agricoltura scomparsa, i paesi fantasma. Poi ho visto Reggio. Gli amici mi hanno portato in alto, alle vecchie fortificazioni militari che dominano lo Stretto di Messina. La vista è bellissima. Salendo ho visto piccole discariche un po’ dappertutto. Anche nei torrenti, che poi quando si riempiono d’acqua portano i rifiuti in mare. Tutto lo stretto di Messina ha un fondale che è un’enorme discarica, con materiali depositati da anni.
Ho pensato alla mia generazione. Abbiamo vissuto la fine della civiltà contadina. Un passaggio verso la modernità che capita a pochi di vivere. Come cantava Adriano Celentano: “Là dove c’era l’erba…”. Molti pensavano che con la modernità saremmo stati meglio. Lo sviluppo, il cemento, ci attraevano e ci illudevano. Oggi la mia generazione fa in tempo a vedere che, dopo la civiltà contadina, sta scomparendo anche la modernità. Come ci raccontano il povero Stretto di Messina, o la plastica che è ormai ovunque, o il cambiamento climatico che ci tortura quest’estate.
L’antropologo Vito Teti ha scritto:
“Non da una civiltà all’altra siamo passati, ma dall’umanità alla non umanità. E in questo universo dove tutto cambia, perché non legarsi a ciò che resta, a ciò che dura, a ciò che parla ancora di umano?”
Va fatto anche sul Gottero, in Val di Vara, ovunque: favoriamo una nuova nascita di ciò che resta: l’agricoltura, il bosco, i saperi ambientali e territoriali degli ultimi contadini, la cultura. Le chiese della Val di Vara sono straordinarie. A Varese Ligure, come dice il mio amico don Sandro Lagomarsini, bisognerebbe aprire alcuni palazzi alle visite, da tanto che sono belli. La Val di Vara non deve diventare la “sesta terra” delle Cinque Terre, ma sviluppare la sua identità salvando ciò che resta, contro ogni tentativo di “appropriazione metropolitana”, per usare un termine di don Sandro.
Forse non è finita. Possiamo ancora immaginare, progettare, sognare.

lucidellacitta2011@gmail.com

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