Presentazione alla Spezia di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi – Venerdì 5 aprile ore 17 alla Biblioteca Civica Arzelà di Ponzano Magra
28 Marzo 2024 – 08:58

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Dal Gottero a Valeriano vince la guerriglia della montagna

a cura di in data 5 Febbraio 2014 – 20:02

Alta via dei monti liguri, veduta del golfo della Spezia dalla vetta del Monte Gottero (2012) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia – 2 febbraio 2014 – Valeriano sorge su un colle, circondarlo è facile. La notte tra il 25 e il 26 gennaio del 1945 cinquecento soldati tedeschi accerchiarono il paese per catturare i partigiani della compagnia di Giustizia e Libertà, comandata da Amelio Guerrieri. “L’impresa di Amelio fu eroica. Quando ci avvisarono, nella notte, pensammo di non avere scampo. Solo Amelio non perse la calma. Disse a chi era con lui: ‘andate a chiamare tutti e radunateli in piazza’. Il suo disegno fu subito chiaro: trovare un punto per portarci fuori dal cerchio e farci scappare senza vittime. Gettava giù i sassolini, per capire dov’erano i tedeschi. In un punto non sentì reazioni, capì che quel varco era libero. Ci disse: ‘Io sparo, voi approfittatene e scappate’. Ce la facemmo tutti, tranne il povero Nino Morini, perché ci vedeva poco. I tedeschi bruciarono la casa di Amelio e dei suoi genitori, che erano sfollati. In un’altra occasione suo padre salvò i partigiani con un’azione spericolata, ma Amelio non volle mai, nel dopoguerra, che avesse il riconoscimento di partigiano, lui era fatto così”. Sono le parole di Sergio Ferrari, uno dei primi ragazzi di Valeriano a unirsi ad Amelio dopo l’8 settembre del ’43. “Di Valeriano siamo rimasti in vita in tre, degli altri ben pochi”, racconta. C’è in Sergio, come in tutti i partigiani di Amelio, un’ammirazione senza confini per il loro comandante. Dopo settant’anni gli obbedivano ancora. Amelio andò ai funerali di tutti i suoi uomini, sempre. Segno di un legame mai spezzato. Sabato scorso non ero alla manifestazione che si tiene ogni anno a Valeriano perché fuori città, ma alla prossima -quella del 70°- non voglio mancare. Il Comitato Unitario della Resistenza organizzerà anche una grande manifestazione in occasione del 70° della battaglia del Gottero, il momento decisivo per la lotta partigiana nei nostri monti. Tedeschi e fascisti organizzarono un immenso rastrellamento, muovendo da Val di Vara, zona di Pontremoli e parmense per accerchiare e distruggere le bande della IV Zona Operativa. L’attacco generale cominciò il 20 gennaio 1945, con truppe ingenti: i nostri partigiani si ritirarono verso il Gottero, ebbero dure perdite ma riuscirono, dopo una decina di giorni, a tornare nelle loro precedenti posizioni, vanificando l’attacco. I nazifascisti si ritirarono, la lotta dei “ribelli” proseguì fino alla vittoria finale, in aprile. La tenacia e la tecnica della guerriglia della montagna avevano vinto. L’episodio di Valeriano fu, non va mai dimenticato, un drammatico epilogo della grande battaglia del Gottero.

Amelio Guerrieri (2013) (foto Alessandro Fiorentini)

Con Sergio ho ripercorso tanti altri episodi della vicenda partigiana di Amelio. “Era solo un comandante di compagnia perché era modesto e rifiutava i galloni, ma non era secondo a nessuno -spiega Sergio- tant’è che fu incaricato, non a caso, del comando per la liberazione di Spezia” (si veda, su questa rubrica, “Come Spezia fu liberata dai nazifascisti. Il testamento civile di Amelio”, 17 novembre 2013). Amelio era un comandante severo, rigoroso, rispettato da tutti. Dai suoi uomini: “Mangiava sempre per ultimo. Un giorno il cuoco, al suo ritorno da una missione impegnativa, gli fece un piatto più abbondante, lui lo mangiò ma solo dopo aver a lungo protestato: ‘questo lo mangio, ma guai a te se lo fai un’altra volta!’ lo apostrofò”. Rispettato anche dai contadini dei monti: “Alle popolazioni chiedeva il minimo, per questo loro gli davano sempre di più… Dopo la Liberazione abbiamo rifatto tutti i sentieri, dovunque eravamo accolti a braccia aperte per come ci eravamo comportati”. Amelio fece piazza pulita dei delinquenti, di coloro che si univano ai partigiani per rubare ai contadini: “Nessun altro comandante aveva come lui la capacità di farsi rispettare”. Tra i briganti che compivano azioni criminose verso le popolazioni il più temuto era “Franz l’austriaco”. Amelio lo aggredì e lo disarmò a Bastremoli, ma non lo arrestò e gli ingiunse di lasciare la zona. Un giorno, mentre Amelio era a Sorbolo dopo un’azione di sabotaggio, arrivò di corsa un ragazzino che lo avvertì che Franz a Follo Alto aveva preso un bambino e minacciava la madre con una pistola puntata per avere dei soldi. Amelio corse verso quella casa, Franz gli puntò la pistola sulle scale ma Amelio, incurante, gli saltò addosso e lo disarmò. Fu fatto prigioniero, ma nella notte riuscì a liberarsi e a uccidere un ragazzo diciottenne che lo sorvegliava. Un partigiano se ne accorse e lo uccise sul colpo. Una pagina tragica, che fa capire, dice Sergio, che “la nostra vita era difficile non solo per via dei tedeschi e dei fascisti ma anche per via di chi si infiltrava nelle bande”.
Sono tante le pagine di eroismo di Amelio che Sergio ricorda. Una volta, vittima di un agguato mentre viaggiava in treno, “si liberò gettandosi e ferendosi nella caduta” per tornare ai monti, malato di broncopolmonite. Organizzò poi molti attentati alle colonne tedesche e ai presidi fascisti, “ma non avemmo mai morti per le sue capacità militari e di organizzazione della fuga dopo gli assalti”. L’attacco ai fascisti di Padivarma, per esempio, fu un successo perché “attraversammo il fiume con le pantofole che Amelio aveva fatto realizzare alle donne per non farci fare rumore”. Fino alla prova più dura: il 12 aprile 1945 Ermanno Gindoli, comandante del Battaglione Zignago della Colonna Giustizia e Libertà, attaccò, con l’appoggio dei garibaldini della Vanni, il presidio fascista di Borghetto, l’ultimo rimasto in Val di Vara. Dopo un duro scontro, i militi si arresero e 21 di loro furono presi prigionieri. Subito dopo Gindoli ed altri due partigiani furono uccisi a fucilate da un’autocolonna di tedeschi in transito. Lo strascico fu sanguinoso: esclusi tre minorenni, tutti i militi repubblichini di Borghetto furono fucilati dai partigiani azionisti. “Era la guerra contro un invasore”, mi disse Amelio parlandomi di questa vicenda. Ma ascoltiamo tutta la storia leggendo le sue parole, riprese dai miei appunti del nostro colloquio, che coincidono con la testimonianza conservata nell’archivio “Voci della Memoria”, curato dal nostro Istituto Storico della Resistenza. “Con pochi elementi abbiamo cercato di portare i repubblichini da Borghetto al castello di Suvero, per poterli tenere prigionieri lassù. Ma la popolazione si scagliava contro di loro: avevano fatto tante mascalzonate, avevano preso le catenine delle bambine, rubato i loro corredi… avevano ammazzato tanta gente… li massacravano, abbiamo dovuto difenderli e rafforzare la scorta. La gente di Suvero li rifiutò, i nostri andarono a Torpiana di Zignago con un altro giorno di cammino, ma anche lì la gente disse ‘no, non li vogliamo’. Furono portati in una caverna alla periferia di Torpiana, la popolazione non voleva dare da mangiare ai partigiani perché non voleva che il cibo finisse ai prigionieri. Era una situazione insostenibile, qualcuno dei nostri di guardia si addormentò, i fascisti scapparono… i nostri hanno sparato, li hanno fucilati… due erano rimasti, furono anch’essi fucilati”.
Amelio racconta l’episodio, ma non era presente: lui era indirizzato verso Spezia, la Liberazione era vicina. Chi c’era, invece, “per caso”, come spiegò, era Cesare Godano, “Gatto”, che era stato commissario politico della Colonna Giustizia e Libertà ed era, in aprile, responsabile per l’organizzazione del Partito d’Azione nella provincia della Spezia. Leggiamo anche le sue parole, raccolte in una video intervista presente nell’archivio del Museo della Resistenza di Fosdinovo: “Lì successero delle cose che possono far inorridire l’uomo del nostro secolo, di oggi. Alcuni prigionieri furono picchiati. Una dozzina furono uccisi. Anche perché tra loro c’era qualcuno che continuava a sostenere, con vigore e qualche punta retorica, le ragioni del fascismo”. Godano parla di “amnistia” per i ragazzini e di un “processo partigiano”: “Io so che si faticò molto a salvare quelli più giovani… la formazione era esasperata, avevano veduto ammazzare il loro comandante… la mia brigata ha avuto 114 morti, in combattimento o fucilati. Siamo in un credito pesante”. E così conclude: “Io dico che tutte le uccisioni sono una cosa pazzesca, chi ce l’ha nel cuore non le dimentica, non si può… Però, detto questo, facciamo un po’ i conti. Io quei 114 compagni che ho perduto lassù ce li ho ancora tutti nel cuore, tutti lì”. La versione di Godano è confermata dal parroco di Torpiana don Battista Ravini. La possiamo leggere nel secondo volume del libro cronistorico del parroco, una sorta di “diario” della vita della parrocchia scritto per ordine dell’autorità vescovile: “Gli appartenenti alla Brigata Nera vengono processati e condannati a morte”. E ancora: “Furono condotti nella località la Foce, dove furono confessati dal cappellano don Roberto Bordigoni” e poi in località la Tana, “una tana naturale, grande come una stanza”. Don Ravini aveva preso parte alle prime vicende della Resistenza in Val di Vara, ma poi era entrato in contrasto con il comando di Giustizia e Libertà, sostanzialmente per la sua incomprensione della realtà partigiana. Oltre che verso i fascisti, era molto critico verso i partigiani giellisti. Per questo la sua testimonianza non fu priva di pregiudizi, come si può leggere nella descrizione delle uccisioni dei repubblichini nella caverna. Il diario mostra comunque l’odio della popolazione verso i fascisti e persino verso i loro familiari, in sintonia con quello che racconta Amelio. Compaiono, nel diario, anche i militi che fuggono dalla caverna, come nel racconto di Amelio, ma in una ricostruzione ben diversa: sono creduti morti, in realtà sono feriti e fuggono, ma vengono uccisi. Le versioni dell’accaduto, come abbiamo visto, non collimano tra loro. Certamente vi fu un processo, e poi le fucilazioni. E’ realistico sostenere che le fucilazioni non fossero predeterminate fin dall’inizio e che siano state stimolate anche dall’odio della popolazione (o almeno di buona parte di essa): è un elemento che si trova sia nel racconto di Amelio che nel diario del parroco.
In ogni caso, questa vicenda ci spiega che anche uomini che si battevano per la libertà e la pace furono costretti dalla guerra a essere, in questa occasione, “brutali”. Si tratta di vicende estremamente comuni nel 1943-45: molte formazioni partigiane si trovarono, in particolari situazioni, a uccidere prigionieri fascisti. D’altra parte il destino di un partigiano catturato dai fascisti era quasi sempre segnato. Mi sono sempre interrogato su questi episodi. Ma credo che l’umana pietà per i morti di tutte e due le parti non debba far dimenticare la verità: una parte fu costretta alla guerriglia perché l’altra parte aveva un esercito con cui voleva sottomettere e distruggere il mondo con la violenza e la dittatura. In ogni guerra la responsabilità storica ricade sempre su chi ha provocato dolore ed efferatezze. Uno studioso, Giorgio Bertone, ha richiamato le pagine non di un pericoloso rivoluzionario ma di Alessandro Manzoni. L’autore de “I promessi sposi” commenta così la volontà di farsi giustizia di Renzo contro il despota spagnolo che pretendeva di violare non solo tutte le leggi ma anche l’onore delle donne esigendo lo ius primae noctis, nel caso ai danni di una povera fanciulla sua promessa sposa: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi”. Spero che non ci accada più di trovarci in situazioni simili. Ma, visti i tempi odierni e la minaccia di tempi peggiori, non sono ottimista. Temo che ci saranno altre situazioni in cui dovremo, alla fine, decidere se si sta dalla parte di Renzo o di Don Rodrigo.

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