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Chi resta è un eroe

a cura di in data 12 Settembre 2015 – 10:05
Neves, sartoria delle Suore Francescane di Maria Immacolata

Neves, sartoria delle Suore Francescane di
Maria Immacolata
(foto di Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 6 settembre 2015 – “Chi resta è un eroe”, ci dice a Neves Suor Lucia, delle Suore Francescane di Maria Immacolata. Si riferisce ai giovani saotomensi che, nonostante la situazione di grande povertà del Paese, decidono di restare. Un terzo della popolazione, invece, è immigrato nel giro di pochi anni. Principalmente in Portogallo, ma anche in Spagna e in Francia. Qualcuno anche in Italia: a Roma c’è una piccola comunità. Fanno le pulizie nelle case o lavorano in cucina nei ristoranti, gli uomini sono impiegati anche nell’edilizia. Poi c’è l’immigrazione qualificata di chi si laurea in Europa e qui si ferma a lavorare: una perdita gravissima per il Paese, che ha un enorme bisogno di professionalità in tutti i campi.
Ciò che accade a Sao Tomè non è che un piccolo esempio del fenomeno principale del nostro tempo, le migrazioni: mezzo mondo è in movimento, individui, comunità e interi popoli. E’ un fenomeno non nuovo nella storia, ma nella società globale coinvolge masse imponenti come mai era accaduto in passato. L’antropologo Michel Agier ha stimato circa un miliardo di migranti nei prossimi quarant’anni: “Dopo la globalizzazione di capitali, beni e immagini, ora è arrivato il tempo della globalizzazione dell’umanità”.

Una parte è costituita dai migranti richiedenti asilo, che fuggono dalle guerre. In Europa siamo ancora nell’ordine delle migliaia, mentre il piccolo Libano da solo accoglie un milione e mezzo di rifugiati, la Turchia due milioni. Il fatto è che, per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, 6 milioni di persone hanno dovuto lasciare le proprie case, e l’86% di queste oggi si trova nei Paesi vicini ai loro, sperando di rientrare dopo la guerra. Solo una minima parte arriva alle porte dell’Europa: eppure il Vecchio Continente è molto agitato e preoccupato, immemore del fatto che i rifugiati stanno fuggendo da situazioni di guerra di cui noi, i Paesi occidentali, siamo direttamente o indirettamente responsabili. Siamo intervenuti militarmente in Afghanistan, Iraq, Libia, Repubblica Centroafricana, Mali, e abbiamo incoraggiato la guerra civile in Siria. La democrazia e i diritti dell’uomo sono stati usati per giustificare questi interventi militari, che però non hanno mantenuto le loro promesse. La democrazia, infatti, non si esporta a colpi di missili e droni.

Neves, sartoria delle Suore Francescane di Maria Immacolata

Neves, sartoria delle Suore Francescane
di Maria Immacolata
(Foto di Giorgio Pagano)

Queste migrazioni forzate dovute alle guerre non si impediscono con i muri, e meno che mai con altre guerre, ma con le soluzioni. Cioè con la politica, mobilitandosi per porre fine ai conflitti. Le guerre si possono fermare, se c’è la volontà di farlo. Certamente non si può affrontare con le guerre un problema creato dalle guerre. Un intervento militare in Libia non farebbe che riversare il fenomeno del flusso di migranti su altri Paesi, tra cui la Tunisia, rendendo ancora più instabile la situazione. Perché quelli che partono dalla Libia non sono libici ma siriani, eritrei, somali, maliani… Oppure l’intervento militare tratterrebbe queste masse dolenti nei deserti, via obbligata della loro fuga prima di arrivare in Libia. Deserti che hanno già inghiottito più vittime di quante ne ha annegato il Mediterraneo. Non possiamo, quindi, che accogliere i rifugiati, con un impegno dell’Europa che finora è mancato: perché l’Europa, come ha scritto la filosofa ungherese Agnes Heller, “è un’Europa di Stati nazionali egoisticamente incapaci di accettare nuovi cittadini di altre culture, al contrario dell’America”, che ha capito che integrare differenti culture è difficile ma vantaggioso (anche per questo ha una crescita doppia di quella della Ue). Non possiamo che accogliere perché nessuno di questi migranti, per ora, può tornare a casa sua. Motivo per cui è ipocrita chiedere che siano “aiutati a casa loro”: la loro casa non c’è più. I rifugiati vanno quindi “aiutati a casa nostra”, dando vita a piani formativi e per il lavoro che siano a loro utili, per quando potranno rientrare nel loro Paese e tornare ad avere una loro casa. Piani formativi e per il lavoro che dovrebbero riguardare tutti i deboli e i poveri, rifugiati e italiani: altrimenti si scatenerà sempre più quella “guerra tra poveri” che alimenta il razzismo, di cui già si vedono molti segni. L’obbiettivo, dice il sociologo Zygmunt Bauman, è “una fusione di orizzonti… una nuova solidarietà tra gli umani”. Né noi né i migranti ci possiamo salvare da soli. Quelli che dicono “prima gli italiani” non hanno capito che entrambi abbiamo bisogno delle stesse cose: casa, formazione, lavoro, salute… Tutte cose che i migranti cercano e che noi stiamo perdendo, e che possiamo forse salvare e recuperare per tutti: a patto di sconfiggere l’austerity neoliberista.

Ci sono poi, oltre ai migranti in fuga dalle guerre, aventi diritto di asilo, i “migranti economici” e “ambientali”, come i saotomensi e tantissimi altri: vittime della nostra guerra al clima (si veda, in questa rubrica, “Papa Francesco e il clima come bene comune”, 23 agosto 2015), o della miseria frutto sia dello sfruttamento neocoloniale che degli errori delle classi dirigenti africane. Lo State of the World 2015 del World Watch Institute stima che tra il 2008 e il 2013 le persone che abbiano dovuto spostarsi in altre aree o Paesi, a causa dei disastri climatici e ambientali, siano state 140 milioni. Anche in questo caso, solo una piccolissima parte bussa alle porte dell’Occidente. Dove un “migrante ambientale” o “economico” non ha diritto allo status di rifugiato (perché non fugge direttamente da guerre e oppressioni): è bollato come clandestino e respinto al suo Paese, o schiavizzato in campagna dai caporali, con infinite complicità. Eppure, dei danni da caos climatico sono responsabili i Paesi abbienti, già colpevoli di sfruttamento coloniale e postcoloniale ai danni di Africa, Asia e America Latina. Distinguere i “profughi” dai “migranti economici” e “ambientali” è il succo della proposta contenuta in un recente articolo del Presidente della Commissione Jean Claude Junker. Tutto andrebbe basato sulla classificazione in “sicuri” e “insicuri” dei Paesi di provenienza. Ma chi decide se un Paese è sicuro? Bruxelles o chi sta cercando di scapparne? Le persone che fuggono dalla miseria sono forse meno bisognose di chi fugge da una guerra? Il diritto di asilo per i rifugiati è quindi una soluzione necessaria ma non risolutiva, perché lascia in ombra le ragioni dei non rifugiati, di chi cerca una vita migliore e scappa dalla miseria. L’Europa dovrebbe accogliere anche queste persone, rendendole regolari. In una notte, Barack Obama ha regolarizzato oltre tre milioni di uomini e donne fino a quel momento irregolari. Anche noi ne abbiamo bisogno: ricordiamoci che in Italia sono più i decessi che le nascite, e che il rischio demografico e della mancanza di forza-lavoro (specialmente per svolgere i lavori più pesanti e meno retribuiti) è dietro l’angolo. Contemporaneamente, però, occorre agire sulle cause che spingono i “migranti economici” e “ambientali” a fuggire. Dobbiamo non solo impedire le guerre e le violenze sui loro territori, ma anche promuovere una giustizia redistributiva globale e favorire lo sviluppo economico in loco, che è anche il nostro interesse. Certo: “aiutarli a casa loro”, nei luoghi da cui fuggono, perché aumenti il numero degli “eroi che restano”.

Interpretando il pensiero di Papa Francesco, Eugenio Scalfari ha scritto: “Il suo appello al Congresso americano e a tutte le potenze che rappresentano il cardine dell’Onu e quindi del mondo intero, verterà necessariamente su un altro aspetto fondamentale delle migrazioni (oltre a quello dell’accoglienza, ndr): una conquista di libertà dei migranti che avviene, per cominciare, nei luoghi dove ancora risiedono e dai quali vorrebbero fuggire. E’ lì, proprio in quei luoghi, che il diritto di libertà va riconosciuto, oppure nelle loro adiacenze, creando se necessario libere comunità da installare in aggregati che esse stesse avranno costruito e amministreranno con una serie di servizi e con un’educazione allo stesso tempo civica e professionale”. E’ quello che, nel nostro piccolo, ci proponiamo con il nostro Piano di sviluppo sostenibile e inclusivo di Lembà, in questa piccola isola al centro del mondo. La speranza è che i Grandi del mondo, tutte le chiese, e soprattutto tantissimi giovani disposti a impegnarsi, si mobilitino attorno al grande obbiettivo di una politica di rilancio e rinnovamento della cooperazione internazionale, di disarmo e di pace, di giustizia sociale e ambientale.

Giorgio Pagano

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