Per un golfo di pace, lavoro e sostenibilità “Riflettiamo sul progetto Basi Blu” – Sabato 13 aprile ore 17 alla Sala conferenze di Tele Liguria Sud
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Genova, un mese dopo

a cura di in data 21 Settembre 2018 – 08:48
Genova, scritta murale nel centro storico  (2010)  (foto Giorgio Pagano)

Genova, scritta murale nel centro storico
(2010) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 16 settembre 2018 – Dopo “Marrakech, diario africano”, la rubrica non può che ripartire dal fatto che più ci ha sconvolti in questa fase, giusto un mese fa: il dramma del crollo del ponte Morandi. Una catastrofe nazionale, simbolo di uno Stato che non ha più un progetto perché è stato smontato in questi anni, dal centrodestra come dal centrosinistra. E una catastrofe per Genova, che obbliga a una nuova idea della città. Il crollo del ponte spinge a una grande discussione pubblica in quella città, assente da troppi anni, da cui far nascere un nuovo progetto per la Genova del futuro.

E’ CROLLATO ANCHE UN MODELLO DI SVILUPPO
Mi convince l’analisi dell’amico Mauro Barberis:
“Quando i nostri avi s’insediarono tra Polcevera e Bisagno, sulla rotta della navigazione tra la Grecia e Marsiglia, sapevano perfettamente che questo non è un territorio facile. La vocazione genovese per il mare, per i commerci, per la finanza, prima mediterranea, poi oceanica, nasce da qui: da un rapporto difficile con un territorio inospitale. Qui s’é forgiata, nei secoli, l’anima genovese, fondamentalmente anarchica, refrattaria alla cosa pubblica, lasciata per millenni alle consorterie familiari e private. Il dopoguerra, con la rinascita civile e gli insediamenti statali nell’industria pubblica, ci ha fatto dimenticare tutto questo. Per un lungo attimo, durato pure qui i fatidici trent’anni gloriosi, ci siamo dimenticati della nostra storia e abbiamo cominciato a pensare in grande, a una città da un milione di abitanti. Contro la nostra cultura, sospesa tra il mugugno e il maniman, abbiamo tombato fiumi, costruito ponti, autostrade e quartieri dormitorio. Insomma, abbiamo cementificato il territorio: come si dice con una frase fatta che oggi suona sinistramente appropriata. Persino un ponte che altrove si sarebbe fatto in metallo qui si è fatto in cemento. E’ facile dirlo adesso, ma quei piloni superstiti che abbiamo visto da tutte le prospettive possibili, anche dal basso, incombenti sulle case, diventano il simbolo di una stagione della nostra storia, anche gloriosa, ma finita martedì sul greto del Polcevera” (“Il Secolo XIX”, 18 agosto 2018).
Ma come dovrà essere la Genova del futuro? Su questo devono cimentarsi la discussione pubblica e la mobilitazione civile: una Genova meno cementificata, più “leggera”, più attenta all’uomo e all’ambiente.

NON C’E’ PIU’ LA MANUTENZIONE
Nelle città bisogna certamente costruire infrastrutture, ponti, edifici. Ma poi bisogna anche tenere in vita e in sicurezza queste opere, manutenerle. A tal fine servono risorse umane ed economiche. Nella storia delle nostre città e dei nostri territori questa legge è stata sempre rispettata. Il sistema della manutenzione era un elemento prioritario della vita nazionale e c’erano le istituzioni pubbliche che presidiavano quella fondamentale funzione. Oggi , invece, la manutenzione non c’è più: è stata cancellata dalle politiche dei tagli di bilancio. Un esempio: l’Upi, Unione provincie italiane, afferma che la spesa per chilometro (ci sono 152 mila chilometri di strade regionali e provinciali) in pochi anni è passata da 7,3 a 2,2 euro a chilometro. Analogamente, non c’è Comune italiano che abbia le risorse per la manutenzione del proprio patrimonio infrastrutturale. Servirebbero somme imponenti: lo sviluppo lineare della rete stradale comunale supera il milione di chilometri. Ma ci sono soltanto tagli. E c’è anche, spesso, una responsabilità della classe politica locale, che preferisce la grande opera alla manutenzione, perché procura più consenso, e in ogni caso, per qualunque tipo di opera, traguarda sempre il momento della cerimonia del taglio del nastro tricolore a fini lavori, per poi dimenticarsi di manutenere e di controllare.
Il crollo del ponte di Genova dimostra, sostiene l’urbanista Paolo Berdini, che questa “follia liberista non si è fermata alle opere minute” e che è “dilagata in ogni settore, comprese le opere affidate in concessione, come il sistema autostradale italiano” (“Il Manifesto”, 15 agosto 2018). In Italia non si manutiene più nulla, nemmeno opere fondamentali per il Paese come il Morandi. Il che si spiega anche con un sistema di concessioni, in campo autostradale, che è attuato in un regime quasi di fatto bipolistico e che da decenni si perpetua senza che gli organismi pubblici competenti sappiano esercitare una sistematica azione di controllo sull’effettivo rispetto degli obblighi dei concessionari in materia di manutenzione e di sicurezza.
Questo non significa che l’Italia non debba più costruire nuove opere, perché abbiamo certamente bisogno di alcune opere che rendano moderno il sistema infrastrutturale. A patto, però, di discuterne in modo maturo e trasparente con le comunità cittadine e -soprattutto- di riversare ogni risorsa umana, progettuale ed economica pubblica sulla prospettiva della manutenzione. La priorità deve diventare la manutenzione, non la nuova opera. Bisogna cambiare profondamente il sistema e ribaltare il rapporto tra gli investimenti in nuove grandi opere -di cui dovrebbero sopravvivere a una verifica seria soltanto quelle poche davvero utili- per reinvestire risorse adeguate nella manutenzione. Non solo delle infrastrutture, ma di tutto il costruito italiano: non dimentichiamo le criticità sismiche e idrogeologiche, nonché i rischi ambientali di molti contesti nazionali. Si pensi, perché riguarda direttamente il territorio spezzino, all’assenza di risorse per bonificare i siti inquinati.

Zenech Marani (archivio famiglia Bernardini-Marani)

Zenech Marani
(archivio famiglia Bernardini-Marani)

IL DISASTRO DELLE PRIVATIZZAZIONI E IL NUOVO RUOLO DEL PUBBLICO
Non c’è dubbio: la politica, di centrodestra e di centrosinistra, ha regalato buona parte delle autostrade ai Benetton. Quando si privatizzarono le autostrade, gli investitori esteri si dimostrarono poco interessati: temevano che lo Stato sarebbe stato poco accondiscendente in futuro. In realtà avvenne il contrario: i Benetton hanno saputo presidiare quell’intreccio di “scambi ricambiati” che è tipico del nostro capitalismo. Ci si liberò di un valore enorme senza alcuna regolazione, senza istruzioni per l’uso, lasciando al concessionario ogni vantaggio. Le autostrade furono privatizzate nel 1994 ma l’Autorità di Regolazione dei Trasporti fu creata solo nel 2011!
Ha ragione Marianna Mazzucato:
“Nel dopoguerra la ricostruzione e il miracolo economico sono in larga parte merito dei grandi enti pubblici (Iri ed Eni) che avevano ai vertici manager di assoluto livello. Poi questi stessi manager sono stati progressivamente sostituiti da dirigenti indicati dalla politica e, contemporaneamente, si è cominciato a organizzare il pubblico in base a criteri privati. Al termine del percorso si è stabilito che il pubblico è inefficiente. Una classica profezia che si autoavvera”. E oggi? Continua l’economista italiana docente a Londra: “L’errore è quello di immaginare un sistema completamente pubblico o completamente privato. Il segreto è nell’interazione”, nell’”imbracciare finalmente un piano strategico per il Paese con una forte missione pubblica” (“la Repubblica”, 24 agosto 2018).
Servirebbe una grande discussione sulle forme di questa interazione, su un pubblico capace di regia strategica e di controllo e di essere “bene comune”, su un privato no profit anche nel settore infrastrutturale…

IL DISTACCO TRA LA SINISTRA E IL POPOLO
Ha scritto il giornalista e storico Paolo Mieli, dopo i funerali delle vittime del crollo:
“Per la prima volta nella storia repubblicana due leader di governo sono stati accolti dalla folla plaudente e gli esponenti dell’opposizione sono stati fischiati, come fossero correi del crollo. Questo fatto sarà ricordato dai libri di storia… Le elezioni del 4 marzo sono state il big bang di una nuova storia. Difficilmente torneranno i partiti tradizionali con le loro alchimie” (la Verità, 3 settembre 2018).
Certamente il “governo del cambiamento” deve dimostrare di esserlo: non solo concentrandosi sul braccio di ferro con i Benetton, ma allargando lo sguardo ai problemi del Paese e agli investimenti necessari per la manutenzione e la sicurezza, e rilanciando in questo modo l’economia. Ma se pure il nuovo fallisse, gli italiani non accetterebbero di tornare al vecchio. A Genova è stata misurata la gravità di una crisi di rigetto dell’opinione pubblica nei confronti del Pd, ormai visto dopo cinque anni di renzismo come partito amico e protettore dei potenti: una crisi di rigetto che ha pochi precedenti e che per questo, ha ragione Mieli, è un fatto storico. La questione è molto seria, perché un Paese democratico non può stare a lungo senza un’opposizione. Devono innanzitutto lasciare il campo i capi di questi anni, “narcisisti, vanesi, dediti al culto di se stessi e del nulla” (Marco Damilano, “L’Espresso”, 26 agosto 2018). E poi bisogna ricostruire una forza politica che non solo ascolta il popolo, ma che vive con il popolo e ama il popolo. E’ il minimo indispensabile per cercare di cominciare, finita una storia, una nuova storia.

Post scriptum:
In assenza della rubrica, non ho potuto ricordare il 75° anniversario dell’8 settembre. Ma l’ha fatto molto bene, su questo giornale, il circolo della Spezia di “Libertà e Giustizia”, il 5 settembre, soffermandosi in particolare sul contributo della Marina Militare e sul sacrificio della corazzata “Roma”. Davvero l’8 settembre 1943 non fu solo il momento dello sbando, ma anche il momento del riscatto, dell’inizio del riscatto: le due Italie si intersecarono in quei giorni, ma è giusto cogliere soprattutto la parte attiva. Così come è giusto ricordare il protagonismo delle donne. Furono soprattutto le donne a soccorrere i soldati che sbandavano in un Paese occupato, nel nome della solidarietà umanitaria e dell’odio contro la guerra. Donne molto diverse tra loro, in città o in campagna e in montagna: ma per tutte fu il momento della “scelta morale”, dell’assunzione di responsabilità, che si trasformò poi in partecipazione ed autonomia. Tra queste donne c’era Zenech Marani, che dopo l’8 settembre si licenziò dalla Ceramica Vaccari per fare la staffetta partigiana nella Brigata “Muccini”. Nel dopoguerra tornò in fabbrica, operaia ceramista e militante del Pci e della Cgil. Zenech se ne è appena andata: a lei (potete vederla nella foto in basso) dedico l’articolo di oggi. A proposito del rapporto tra la sinistra e il popolo, ecco la frase con cui Zenech termina la sua testimonianza nel libro “Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona Operativa, tra La Spezia e Lunigiana”: “Ho seguito il partito, sempre, ma adesso i dirigenti non sanno neanche cos’è il lavoro, cos’è la gente, perché non ci parlano abbastanza. Oggi nessuno va a parlare in mezzo alla gente, che è sfiduciata e dice che siamo tutti uguali. Sono molto demoralizzata, ma credo sempre nei miei ideali”.

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