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Classe dirigente priva di “ardir”. Intervista di Thomas De Luca a Giorgio Pagano

a cura di in data 15 Febbraio 2016 – 10:41

Città della Spezia, 10 febbraio 2016

Intervista di Thomas De Luca a Giorgio Pagano

Innanzitutto perché questo libro, sulla Resistenza? Sono passati decenni, qual è il significato attuale di quel breve, ma intenso periodo storico?
La Resistenza, la nostra in particolare, fu un grande moto popolare e di disobbedienza di massa, l’unico nella nostra storia moderna. Tutto il popolo, anche quello non combattente, vi partecipò con la sua opera di solidarietà, dagli operai delle fabbriche della città ai contadini della Val di Magra, della Val di Vara e della Lunigiana. E decisive furono le donne, non a caso tra le protagoniste del libro. “Eppur bisogna ardir” è una riflessione storica e politica che si basa sulle testimonianze dei resistenti. C’è in loro una varietà di motivazioni individuali molto ampia, che però si inscrivono tutte in un “clima morale”: la scelta per il bene contro il male, per la libertà contro la dittatura, per una concezione della vita come cammino non solo individuale ma anche collettivo. Una rivolta morale contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù. Fu questa dimensione morale, questa “voce sotterranea”, a indicare agli italiani la via della ribellione e del riscatto. L’”ardir”, il coraggio morale, è la parola chiave del libro. E’ un valore più che mai attuale in una fase in cui è del tutto assente dalle qualità degli uomini pubblici, sostituito dall’accondiscendenza supina della politica all’economia e, all’interno della politica, al capo. Il modo di essere delle istituzioni e dei partiti -si pensi alle “liste bloccate”- induce alla piaggeria, alla sottomissione, all’assenza di idee, alla disponibilità nei confronti dei potenti, alla vigliaccheria interessata o alla propria carriera o all’autorizzazione ad avere mano libera nei propri affari sul territorio di riferimento. Per essere eletti queste sono le doti funzionali al partito nel quale ti arruoli. Non è il tempo del coraggio morale, è il tempo della vigliaccheria. Dobbiamo tornare al tempo del coraggio morale. Solo il ritorno alla politica-virtù può redimere la politica-tecnologia del potere dal discredito crescente di cui è oggetto.

Oggi la Resistenza sembra storia di una sola parte della società italiana. E’ stato frainteso il dettame dei padri costituenti o la storia è stata scritta dai vincitori? Perché i richiami all’ideologia fascista vengono respinti in maniera così blanda?
E’ una domanda di fondo, a cui dedico la parte finale del libro. Non c’è dubbio: la vita repubblicana, in Italia, ha progressivamente oscurato e rimosso le sue pur incontestabili origini antifasciste. La storia del dopoguerra, anche quella della nostra città, aiuta a capire. L’anticomunismo divise subito il fronte antifascista, ma la risposta dell’antifascismo fu tale per cui esso tese a riproporsi non tanto e non solo come insieme di valori più o meno condivisi dall’insieme delle forze che agiscono nello spazio repubblicano, ma come linea politica tendente a rimettere in discussione le divisioni interne fissate dalla guerra fredda. Poi, negli anni Settanta, ci fu l’identificazione tra compromesso storico e antifascismo, con la sconfitta del primo che portò all’emarginazione del secondo. La crisi nel rapporto tra politica e società era già aperta, ma il compromesso storico non la bloccò, la accelerò, non ricompose la coesione sociale, la disarticolò. La mia tesi è che la nascita di un partito unitario “socialista di sinistra” avrebbe invece potuto “sbloccare” la democrazia italiana dalla pregiudiziale anticomunista, spostare a sinistra forze cattoliche progressiste altrimenti costrette nella Dc, e contribuire a dar vita a due schieramenti alternativi ma uniti nella condivisione dei valori fondanti della Repubblica, perché nessuno avrebbe più potuto identificare antifascismo e comunismo. Ora che la storia dei partiti è finita, che cosa fare? Occorre ripartire dalle persone, dalle donne e dagli uomini semplici che hanno fatto la Resistenza, come cerco di fare con questo libro. E, più in generale, ripartire dalle donne e dagli uomini semplici della nostra storia del dopoguerra e di oggi. Quindi ben oltre la configurazione antifascista ma animati dalla stessa scelta morale di settant’anni fa, dallo stesso “ardir”. Solo su questa base sarà possibile ricostruire partiti veri, radicati nel popolo e “costituzionali”, per usare il termine dello storico cattolico Pietro Scoppola.

I partigiani sono un patrimonio in via di estinzione. E’ così anche per gli ideali di libertà in contrapposizione alle ideologie di regime, che sia esso politico e sociale?
I partigiani ci stanno lasciando, è la legge inesorabile della vita. Ma restano le loro parole, le loro testimonianze, i loro racconti, la loro scelta morale. Da cui ripartire per trasmettere l’eredità della Resistenza. Gli ideali della Resistenza sono perenni, universali. Certo, il problema della condivisione dei valori fondanti della Repubblica è tutto aperto. Ma un Paese si può dividere sulle scelte politiche senza rischiare di perdersi come comunità solo se tutti, forze politiche e cittadini, sentono il vincolo dell’identità nazionale, di un “destino” e di ideali comuni. Non c’è alternativa a una riconsiderazione e a una reinterpretazione dell’antifascismo e del “patriottismo costituzionale” come spazio repubblicano super partes: quali altri ideali abbiamo se non quelli che ci hanno ispirato nella Resistenza? L’unica alternativa è una repubblica priva di ogni elemento identitario, complesso di procedure gestite da una classe politica sempre più “castale”: una prospettiva inaccettabile.

La Spezia ha avuto un ruolo storico nel ritorno del popolo ebraico in Palestina. Ritiene che la conversione del molo Pagliari sia uno smacco nei confronti di questa pagina di storia?
Dobbiamo avere grande cura della memoria storica. La Marina tra i moli Enel e Pagliari deve diventare il nuovo spazio a mare del Levante, ma va realizzata tenendo conto che il molo Pagliari è un bene culturale da valorizzare, la cui fruibilità deve essere pubblica. Ci sono poi altre battaglie da fare. Penso alla villa del Fodo alla Rocchetta di Lerici, che fu sede della tipografia clandestina del Pci e del Cln: nel libro la propongo come Museo della Resistenza, parte integrante del “museo all’aria aperta” da realizzare nelle colline di Lerici. Un’altra proposta è quella di realizzare a Spezia un “Centro di documentazione sulla Resistenza della IV Zona”: possediamo una grande mole di materiali di archivio, suddivisi in molte sedi associative, e abbiamo anche materiali da richiedere, come nel caso dei processi per le stragi svoltisi a Spezia.

Come risponde a chi accusa la sinistra di aver condizionato la visione del periodo della Resistenza perdonando il comportamento di alcuni gruppi di partigiani?
Nel libro un capitolo è dedicato a Dante Castellucci “Facio”, partigiano comunista ucciso da altri partigiani comunisti. Tutto va raccontato: anche le violenze, i tradimenti e le ombre della Resistenza, su cui va fatta piena chiarezza e, ove necessario, come nel “caso Facio”, anche un’autocritica radicale da parte di chi porta responsabilità. La storia del dopoguerra spiega ma non giustifica affatto i silenzi e le falsificazioni. Tuttavia le ombre, anche se gravi, non scalfiscono il tessuto connettivo della lotta partigiana, la luce della scelta morale. In generale si può dire che la Resistenza cambiò le persone che vi presero parte. Fu scuola di vita, laboratorio di maturazione, di crescita personale e sociale, di emancipazione. Certo, i resistenti erano umani, quindi necessariamente pieni di contraddizioni: nella vita vera l’assoluto non c’è. Ma, salvo eccezioni, il modo di combattere e conquistare il consenso dei partigiani fu opposto a quello dei fascisti. I resistenti non esaltavano la bella morte, non esibivano i cadaveri dei nemici, e usavano la violenza come necessità, consapevoli del suo male intrinseco. Per loro la violenza aveva un carattere difensivo: la scelta di uccidere veniva dopo, era una conseguenza della scelta fondamentale di contrapporsi alla violenza nazifascista, che comportava la possibilità di essere a propria volta uccisi. Così mi hanno sempre parlato tutti i miei compagni e amici partigiani, in discussioni per loro mai facili, sempre dolorose. I fascisti, in generale, trovavano invece nel terrore, nell’esibizione dell’orrore, nel dare la sofferenza, la legittimazione della propria esistenza e del proprio potere. Esattamente come facevano i terroristi “rossi” degli anni Settanta-Ottanta: anche loro sparavano per provare che esistevano. La Resistenza, quindi, non ha nulla a che fare con il terrorismo.

Cosa differenzia l’approccio politico del dopoguerra da quello odierno?
Se ne è appena andato Ettore Scola, un grande regista. Un suo film molto bello, “C’eravamo tanto amati”, evoca bene quel tempo: un Paese finalmente libero tornava nelle mani del suo popolo vero. Si erano riaperte, tra le macerie, le strade dell’avvenire. Dopo la Resistenza ci fu la spaccatura nell’antifascismo dovuta alla guerra fredda, ma i grandi partiti popolari, insieme, scrissero la Costituzione. Lo scontro politico fu sempre aspro, ma la trasformazione di un Paese di contadini e di analfabeti in una grande potenza industriale, la quinta o la sesta del mondo, fu merito anche di quei partiti. Lo spirito della Resistenza contò molto nella ricostruzione, nel passaggio dall’Italietta sabauda e fascista all’Italia repubblicana e civile. Il miracolo economico italiano non si può spiegare solo con i fatti dell’economia: hanno pesato anche le lotte sociali, la capacità del tessuto politico-amministrativo-sindacale di “tenere insieme” il Paese, il senso di appartenere a una comunità. Un Paese scettico, da secoli spettatore passivo di lotte tra fazioni, senza una forte identità, compì una rivoluzione politica: le masse entrarono nello Stato, la democrazia si fece popolo. Si mobilitarono risorse profonde, grazie a partiti veri e radicati. Il Pci non fu certo estraneo a tutto questo: fece entrare nella scena, per la prima volta, i poveri, gli esclusi. Il partito nato per realizzare il comunismo contribuì a costruire la democrazia e divenne un soggetto protagonista della storia nazionale. Poi tutto questo finì, tra gli anni Settanta e Ottanta, di fronte alle sfide dell’Europa e del nuovo mondo: il Pci non seppe rinnovarsi, ma nemmeno la Dc e il Psi. Saltò il sistema di governo imperniato sui partiti della prima Repubblica, i giudici vennero dopo. Ma che cosa accadde? I partiti divennero sempre più “liquidi”, personali, senza radici. Tutti accettarono, con un cedimento culturale profondo, il “pensiero unico neoliberista”, compresa la sinistra. Fino all’oggi: partiti senza popolo competono per gestire quello che c’è, senza un’idea di futuro. Mentre avanza un pauroso processo di spoliticizzazione e di svuotamento della democrazia e della partecipazione. Che fare? Viene in mente un bel verso di Pietro Ingrao, un altro protagonista del Novecento che se ne è andato: “Pensammo una torre, scavammo nella polvere”. Lui stesso lo commenta così: “La parola torre e la parola polvere fanno pensare a una distanza che in realtà non c’è: scavare nella polvere se si vuole essere torre”. E’ tempo di tornare nella polvere, tra le persone, tra i poveri e gli esclusi di oggi, per pensare una nuova torre. Gli ideali della Resistenza e della Costituzione, in questo cammino, saranno il nostro faro.

La vicenda di Jacobs è un fulgido esempio delle motivazioni alla base della guerra civile scoppiata dopo l’8 settembre del 1943. Ma casi di questo genere non sono stati infrequenti. Se ne possono citare alcuni?
Rudolf Jacobs fu un tedesco che passò con i partigiani per riscattare insieme la sua biografia e quella del suo Paese: morì da eroe, quasi cercando la morte. Altri tedeschi fecero la sua scelta: conosciamo solo il nome di altri due -“Hans” per entrambi- che caddero sui nostri monti. Tanti altri si sacrificarono per salvare una comunità o i propri compagni, “con la virtù di un cavaliere antico”, come è scritto sulla tomba di Piero Borrotzu. Con il “Tenente Piero” ricordo don Emanuele Toso, don Giovanni Bobbio, Giovanni Pagani, Ezio Grandis, Astorre Tanca, Miro Luperi… Tutte le loro storie sono nel libro, insieme ad altre, di persone umili e dimenticate: ho scritto soprattutto per loro, dalla parte degli ultimi, per salvare i loro racconti dal silenzio. Tragico ma bellissimo nel suo significato, per esempio, fu l’episodio della morte di due giovani partigiani ortonovesi, amici fraterni, Domenico Diamanti e Guido Gramolazzo: il primo fu ferito, il secondo lo prese in spalla per cercare di salvarlo, ma furono intercettati e uccisi a colpi di mitraglia dai nazifascisti. Il valore dell’amicizia è rivelatore di una Resistenza con un forte tratto di umanità e di moralità.

Il titolo del libro è un verso originario di “Fischia il vento”, la canzone più popolare tra i partigiani ai monti. Le canzoni e la musica sono spesso presenti nel libro, quasi una sorta di filo rosso…L’anno scorso, all’Auditorium di Roma, furono presentati brani di musica composta nei campi di concentramento nazisti, migliaia di piccole partiture, scritte su fogli precari, strappati, e per fortuna salvati. E’ vero dunque che la musica è tra le forme di espressione che più rispecchia il profondo dell’animo, e questo tanto più nell’esperienza del dolore e della minaccia della morte. Nella musica c’è l’indistruttibilità dello spirito umano, che vince sempre alla fine sulla violenza perché rimane nella storia oltre la violenza.

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