Per un golfo di pace, lavoro e sostenibilità “Riflettiamo sul progetto Basi Blu” – Sabato 13 aprile ore 17 alla Sala conferenze di Tele Liguria Sud
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Pagano a Sao Tomè per la cooperazione, con un occhio a Spezia

a cura di in data 9 Settembre 2015 – 08:18

Intervista di Elena Faconti, Gazzetta della Spezia, 4 settembre 2015 – Isole bellissime e poverissime. Così Giorgio Pagano, citando il romanzo Equatore dello scrittore portoghese Miguel Sousa Tavares, descrive Sao Tomè e Principe, il piccolo Stato, a circa 300 chilometri dalla costa del Gabon, collocato esattamente sull’Equatore, nel centro del mondo.
Da giugno il panorama di Giorgio Pagano, ex sindaco della Spezia, presidente dell’associazione Funzionari senza Frontiere, è quello del distretto di Lembà, baracche senza acqua, luce, gas, rete fognaria, dove il 20% della popolazione sopra i 5 anni è analfabeta, mentre 7 sono le persone con formazione superiore. Prima del suo ritorno al centro del mondo, previsto per metà settembre, abbiamo chiesto a Giorgio Pagano di raccontare la sua esperienza a Sao Tomè.

Partiamo dall’ABC, cos’è e cosa fa la cooperazione internazionale?
Nell’immaginario collettivo il termine cooperazione internazionale è solitamente associato alla figura dell’operatore umanitario che si reca nei Paesi esotici rischiando di essere rapito e ucciso. In realtà la cooperazione internazionale è soprattutto cooperazione allo sviluppo, svolta dagli Stati, e anche direttamente dall’Unione europea. Il progetto in cui sono impegnato, per esempio, è europeo. In sostanza i Paesi più forti si impegnano a devolvere parti del proprio PIL ai Paesi più deboli. La percentuale dovrebbe essere dello 0,7%, l’Italia è fanalino di coda: è ferma a un desolante 0,16%. Nel passato molti programmi di cooperazione allo sviluppo sono falliti perché imposti dall’alto, senza la partecipazione della popolazione locale, che è invece un elemento imprescindibile. Ora si sta cambiando rotta. Le associazioni che ho contribuito a fondare, Funzionari senza Frontiere e Januaforum, insistono da anni su due punti di svolta, che sono stati almeno in parte recepiti dalla nuova legge nazionale del 2014 e dalla normativa europea. Il primo è quello di portare nella cooperazione la prospettiva, davvero fondamentale, dello sviluppo locale, del decentramento amministrativo e dell’autogoverno dei territori: non a caso a Sao Tomè il nostro partner è la Camara Distrital, cioè l’organo di governo locale. Il secondo punto di svolta, altrettanto decisivo, è quello di puntare al partenariato tra comunità: cioè tra enti locali e associazioni della società civile dei Paesi ricchi e dei Paesi poveri, imprese comprese. Imprese responsabili e sostenibili economicamente ed ecologicamente, che lavorino al di fuori di ogni logica neocoloniale. A Sao Tomè porto anche l’esperienza e il contributo della RAIL (Rete Attività Internazionali Liguria), che raggruppa le associazioni della società civile ligure: abbiamo firmato un protocollo con il Governo di Sao Tomè per un partenariato a tutto campo.

In cosa consiste il progetto a cui sta lavorando?
Lavoro al Piano di Sviluppo Sostenibile e Inclusivo del Distretto di Lembà, uno dei più poveri dell’isola, e al Piano di Ordinamento Territoriale di Neves, la città capoluogo del Distretto. Per usare il nostro linguaggio: il Piano Strategico e il Piano Urbanistico. La vera sfida è che i Piani non restino nel cassetto. Punto, insieme alla mia equipe -un altro italiano, uno spagnolo, due saotomensi-, sulla partecipazione degli amministratori, dei tecnici, delle associazioni, dei cittadini. Vogliamo trasferire loro le esperienze necessarie perché cresca la capacità di autogoverno. Come dico sempre nelle riunioni e nelle assemblee popolari, dobbiamo fare i Piani “di Lembà”, non “per Lembà”. Sao Tomè e Principe ha grandi risorse: l’agricoltura, a cominciare dal cacao più buono del mondo, la pesca, il turismo, una biodiversità ricchissima. Può diventare come le Seychelles: un nuovo paradiso immobiliare con progetti faraonici e mille cantieri, e qualche emiro arabo che decide tutto. Magari le persone starebbero un po’ meglio, ma il Paese perderebbe la sua identità. La nostra sfida è quella di uno sviluppo diverso, di qualità, rispettoso della natura. Decideranno i saotomensi: credo che loro vogliano vincere la povertà, ma senza diventare la “Dubai dell’Atlantico”.

Quale percezione hanno dei cooperanti gli abitanti di Sao Tomè?
La cooperazione, in passato, ha contribuito alla nascita di una mentalità assistenzialistica. Faccio un esempio: nelle assemblee dei pescatori tanti chiedono un aiuto per cambiare il motore delle loro povere barche. Io rispondo che, certo, cercheremo di fare avere loro il nuovo motore, ma che quel che serve è soprattutto la capacità di uscire da una logica individualistica, di costruire forme di vita comunitaria nei villaggi, di dar vita tutti insieme a una cooperativa di pescatori, sostenuta dall’Ente locale e dalla cooperazione internazionale. Il futuro dei saotomensi sta nella capacità di riscoprire, ovviamente in modo originale e coerente con la loro storia, le esperienze mutualistiche degli albori del movimento operaio europeo: la cooperativa del cacao biologico, da questo punto di vista, è davvero una bella esperienza pilota. Progetti come il nostro puntano a creare “capitale sociale”, voglia di riscattarsi e di essere protagonisti tutti assieme: devo dire che i saotomensi rispondono bene. All’inizio, nei villaggi, le sedi delle riunioni sono quasi vuote, poi a poco a poco si riempiono e arrivano tutti. Mi vengono sempre in mente le assemblee che facevo da Sindaco nelle piazze dei quartieri: scatta, a un certo punto, il meccanismo comunitario.

Com’è una sua giornata lavorativa tipo?
Vivo a Mucumblì, un agriturismo vicino a Neves. Facciamo incontri e riunioni al mattino e al pomeriggio: si tengono a Neves (la Camara ci ha allestito un ufficio nella sua sede), ma anche a Sao Tomè, la capitale, sede dei Ministeri. Dista una quarantina di chilometri, verso nord, ma la strada è dissestata, piena di enormi buche. Come la strada che, verso sud, porta agli altri villaggi del Distretto. Per questo ci muoviamo sempre in pick up. A pranzo ci fermiamo in qualche trattoria a mangiare il pesce, l’alimento principale del Paese, insieme alla frutta. All’Equatore il sole tramonta presto, alle 17. Arriviamo a Mucumblì, dove ceniamo, quando è già buio. C’è una bella terrazza sul mare, dove, connessione permettendo, si può lavorare al computer. Ci si addormenta con il rumore delle onde dell’oceano e degli animali della foresta. Al mattino ci svegliano presto la luce e il canto dei passeri, che a Sao Tomè sono presenti in molte specie endemiche. Mucumblì è l’esempio che Sao Tomè può diventare una meta di sogno, anziché un paradiso immobiliare.

Ha scritto: “Il colonialismo è stato il più vasto e perdurante crimine della storia dell’umanità. Il primo e più efferato criminale, anche se non il solo, è stato l’Occidente, che, per nulla pentito, persiste. Arraffa terre, petrolio, ricchezze naturali”. Ogni giorno imbarcazioni lasciano i porti del nord Africa alla volta dell’Europa, ogni giorno ascoltiamo di tragedie del mare, ogni giorno scopriamo sempre più frontiere chiuse. Come, secondo lei, l’Italia e l’Europa dovrebbero rispondere a questa emergenza?
Ci sono i migranti richiedenti asilo, che fuggono dalle guerre di cui noi, i Paesi occidentali, siamo responsabili. Non possiamo che accoglierli: perché nessuno di questi migranti, per ora, può tornare a casa sua. E’ ipocrita chiedere che siano “aiutati a casa loro”: la loro casa non c’è più. I rifugiati vanno quindi “aiutati a casa nostra”. Servono piani formativi e per il lavoro che siano a loro utili per quando potranno rientrare nelle loro case. Piani che riguardino tutti i poveri, rifugiati e italiani. Né noi né i migranti ci possiamo salvare da soli. Quelli che dicono “prima gli italiani” non hanno capito che abbiamo bisogno delle stesse cose: casa, formazione, lavoro, salute. Tutte cose che i migranti cercano e che noi stiamo perdendo, e che dobbiamo salvare e recuperare per tutti.

Ci sono poi i “migranti economici” e “ambientali”, vittime della miseria o dei cambiamenti climatici…
Certo, come a Sao Tomè: un terzo dei giovani è immigrato. “Chi resta è un eroe”, mi ha detto Suor Lucia, impegnata da anni nel Paese. Il “migrante ambientale” o “economico” non ha diritto allo status di rifugiato: è bollato come clandestino e respinto al suo Paese, o schiavizzato in campagna dai caporali. Ma è giusto distinguere i profughi dai “migranti economici” e “ambientali”? Le persone che fuggono dalla miseria sono forse meno bisognose di chi fugge da una guerra? L’Europa dovrebbe accogliere anche loro, rendendole regolari. Ne abbiamo bisogno: in Italia sono più i decessi che le nascite, e il rischio demografico e della mancanza di forza-lavoro è dietro l’angolo. Contemporaneamente, però, occorre agire sulle cause che spingono i “migranti economici” e “ambientali” a fuggire. Dobbiamo favorire lo sviluppo economico in loco: “aiutarli a casa loro”, perché aumentino “gli eroi che restano”. Serve un grande piano di cooperazione internazionale che impegni gli Stati, gli Enti locali, le Chiese, i giovani di tutto il mondo, per creare libere comunità autogovernate dai popoli. Noi, intanto, nel nostro piccolo, ci stiamo provando.

Vista dall’Africa cos’è l’Europa?
La vicenda dell’immigrazione ci parla di una mancanza di corresponsabilità e di una perdita di valori e di umanità da parte dell’Europa. Anche il messaggio della crisi greca è devastante: niente giustizia, niente solidarietà, vale solamente la legge del più forte. Assieme all’Europa si è squagliata pure la sinistra, che ormai usa le stesse ricette della destra. Vista dall’Africa l’Europa manca di visione del futuro, di un’idea di un destino comune degli europei. Una visione, un destino di cui il Mediterraneo sia parte integrante, così come l’idea di unire le due sponde e di costruire, senza tentazioni neocoloniali, la comunità euro-africana. I migranti che vogliono arrivare in Europa ci pongono proprio questa questione: un’Europa che guardi non solo a Nord e a Est, come in tutti questi anni, ma soprattutto a Sud.

Riesce a seguire le vicende politiche italiane da Sao Tomè?
Su internet, a grandi linee, e con forte amarezza. La politica partitica e istituzionale non è mai stata così screditata e lontana dal popolo. Mai è stato così devastato, inoltre, il campo della sinistra politica. La sola battaglia possibile in questa situazione -lo sostengo dal 2007, quando lasciai la politica partitica e istituzionale- è di carattere sociale e culturale. La battaglia sociale per riunificare la “maggioranza invisibile” che la crisi ha diviso, e la battaglia culturale in favore del pensiero critico. Poi vedremo chi rappresenterà politicamente questa battaglia: ma saranno forze nuove, che non avranno nulla a che fare con quelle del ciclo attuale. Questi partiti hanno fatto, tutti, il loro tempo.

Che impressione ha avuto quando è tornato a Spezia, qualche settimana fa, vivendo da vicino la situazione politica locale?
Un “impero” mi pare volga al tramonto, esaurita la sua spinta propulsiva. I fatti, del resto, parlano da soli: la sconfitta della Paita in Regione, quella di Caluri a Lerici… La maggioranza dei cittadini dà un giudizio negativo su come il Pd governa. E’ arrivata una sola buona notizia: la centrale Enel sarà dismessa. Ma l’abbiamo saputo dall’azienda e dai Comitati, non dal Comune. Per il resto, dal waterfront alla spiaggia alla diga, tutto è fermo, perché Sindaco e Presidente del Porto su tutto litigano. Peccato che siano dello stesso partito, e che il Presidente del Porto sia stato proposto a questa carica proprio dal Sindaco. Che cosa accadrà, dopo l’”impero”, non lo so. Ci sarebbe bisogno di una grande coalizione civile, sociale e popolare, come quella che ha vinto le elezioni a Madrid e a Barcellona. Ancorata alle ragioni della protesta di chi sta male e vuole uno sviluppo diverso. Aperta a tutti, a partire da chi non vota più.

In ultimo, da pochi giorni si è conclusa, non senza polemiche, la Festa della Marineria alla Spezia; qual è la sua impressione su manifestazioni come queste?
Capisco che servono anche gli eventi ludici e spettacolarizzati. Ma costano molto e lasciano poco in termini culturali, perché non affrontano i grandi problemi del nostro tempo. Dal punto di vista culturale dà molti più frutti l’umile lavoro quotidiano in favore del pensiero critico svolto dall’Associazione Culturale Mediterraneo e da altre realtà associative. Ho visto che si è scelto il tema del cibo, cogliendo l’occasione di Expo. Ma non bisognava limitarsi a parlare di ricette: c’è già la Tv. Sarebbe stato importante non fermarsi all’aspetto ludico e cercare di comprendere tutta la filiera alimentare: l’agricoltura, la pesca, la biodiversità, la fertilità dei suoli, lo stato delle acque, la trasformazione delle materie prime e lo sfruttamento del lavoro, lo spreco di cibo, la fame che colpisce un miliardo di persone… Rivolgersi ai contadini e ai pescatori, non solo ai consumatori… Non per guastare la nuova religione del mangiare, ma per capire che per nutrirlo, questo mondo, bisognerà pur pensare di cambiarlo. Un approccio del genere sarebbe stato originale, perché anche Expo è celebrazione del cibo e poco più, e quindi avrebbe certamente funzionato come fattore di attrazione. Invece la Marineria è rimasta una “festa folcloristica locale”, come ha detto, dati alla mano, il presidente dei nostri albergatori.

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