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“Sgancia” e la grazia delle classi popolari

a cura di in data 31 Agosto 2014 – 10:30
Giuseppe Cargioli "Sgancia" con la moglie Lina, la figlia Mara e la nipote Simona (2014) (foto archivio famiglia Cargioli)

Giuseppe Cargioli “Sgancia” con la moglie Lina,
la figlia Mara e la nipote Simona (2014)
(foto archivio famiglia Cargioli)

Città della Spezia, 24 Agosto 2014 – Ad avvisarmi è stata Ketty, un’amica dell’Anpi di Lerici: “Giorgio, devo darti una brutta notizia…”. E io: “no, ti prego, non darmela…”. Una reazione istintiva, per tentare di rimandare il dolore. Giuseppe Cargioli, per tutti il partigiano “Sgancia”, se n’era appena andato. Sembrava impossibile, era una roccia. Il pensiero è corso ai tanti momenti belli passati insieme. Guardate la fotografia in fondo all’articolo: Sgancia, alle manifestazioni, era sempre così, con in mano la bandiera tricolore dell’Anpi di Lerici che gli aveva cucito la moglie Lina, e con al collo il fazzoletto tricolore. La foto gliel’ho scattata il 12 ottobre 2013 a Roma, durante la manifestazione “La via maestra” in difesa della Costituzione. Dietro di lui si intravvede l’altra “bandiera” dell’Anpi di Lerici, il partigiano Luigi Fiori “Fra Diavolo”.

“Sgancia” c’era sempre. Non mancava mai alla Rocchetta, al Fodo, la sede della tipografia clandestina da cui prendeva i volantini che portava, nei primi mesi del 1944, quando era un operaio “scalda chiodi” di appena sedici anni, al cantiere del Muggiano. E non mancava mai a Bardine di San Terenzo Monti. Lui era in montagna con la Brigata Lunense di Giustizia e Libertà, comandata da Alfredo Contri, andò a Bardine dopo la terribile strage nazifascista del 19 agosto 1944, in cui furono uccisi 53 rastrellati provenienti da Sant’Anna di Stazzema e Valdicastello e 103 abitanti dei paesi attorno a San Terenzo. Riporto il suo racconto: “I tedeschi stavano portando via tutto, le donne chiedevano aiuto, il comandante temeva che, se avessimo reagito, i tedeschi avrebbero ucciso tutti… abbiamo dovuto reagire, ci sono stati 16 morti tedeschi… i tedeschi diventarono belve, a Bardine ho visto i morti uccisi a raffiche di mitra, c’era una donna con un bimbo di pochi mesi sul petto… e i corpi appesi ai pali lungo la strada per Fosdinovo, con un cartello che impediva di dar loro sepoltura, pena la morte”. Poi lo ricordo nelle camminate di aprile lungo i sentieri della Resistenza tra Sarzana e Fosdinovo: li conosceva tutti, uno per uno, lui che aveva fatto il partigiano in tante brigate. Era un gran camminatore e correva velocemente per i monti a portare l’ordine di sganciamento alle diverse brigate: da qui il suo soprannome. Avrebbe voluto chiamarsi “Napoleone”, ma fu per sempre “Sgancia”.

La sua ultima Brigata, anch’essa garibaldina, fu la Muccini, di stanza a Canepari. Qui venne fatto prigioniero, in un’imboscata di cui fu vittima anche Paolino Ranieri “Andrea”. Lo portarono a Spezia, nella caserma del 21° Reggimento Fanteria, fu picchiato e torturato per quasi un mese, ma non parlò. Non amava ricordare quei giorni, quelle fucilazioni a salve… Ne parlava, mi ha raccontato la moglie Lina, solo di notte, negli incubi: “Aiuto, mi ammazzano!”. Fu liberato grazie a uno scambio di prigionieri poco prima della Liberazione. I tedeschi lo avevano già catturato subito dopo lo sciopero al Muggiano del giugno 1944: lo avevano portato alla stazione e caricato su un treno diretto ai campi di concentramento, ma un tenente della Wehrmacht, impietosito, lo acchiappò, lo buttò giù dal treno e gli intimò di scappare. “Sgancia”, dopo la Liberazione, andò a Livorno, dove c’erano i prigionieri tedeschi, per cercarlo e ringraziarlo, ma non lo trovò.

Da Spezia fuggì nello zerasco e divenne partigiano della colonna Giustizia e Libertà sotto il comando di Amelio Guerrieri -che “Sgancia” definiva “il grande comandante”- appena in tempo per il primo combattimento, quello del tragico rastrellamento del 3 agosto 1944. Poi combatté, grazie alle sue doti di camminatore, nel Battaglione Internazionale di Gordon Lett, nella brigata garibaldina Vanni, nella Lunense e infine nella Muccini, con la quale liberò Sarzana. Ai monti diventò comunista. L’ha spiegato ai funerali di Vanda Bianchi, chiedendo gentilmente la parola, con un bellissimo intervento non programmato: “Vanda aveva un anno più di me, forse mi ero anche un po’ innamorato… Io ero con la colonna di Giustizia e Libertà, fu lei a convincermi che per ottenere giustizia e libertà serviva un partito organizzato dei lavoratori, e che questa forza era il Partito Comunista. Aveva ragione, da quando il Pci non c’è più c’è meno giustizia e meno libertà”. Poi “Sgancia”, sempre gentile, ha chiesto il permesso di poter intonare un canto partigiano e, ottenutolo, ha cantato, e fatto cantare a tutti in coro, “Fischia il vento”.

Giuseppe Cargioli "Sgancia", Roma, manifestazione "La via maestra", 12 ottobre 2013 (foto Giorgio Pagano)

Giuseppe Cargioli “Sgancia”,
Roma, manifestazione “La via maestra”, 12 ottobre 2013
(foto Giorgio Pagano

Dopo la Liberazione “Sgancia”, valente saldatore, lavorò in Italia, poi vent’anni in Australia, dal 1960 al 1980, e poi ancora in Italia. Conobbe Lina, la donna della sua vita, a Valmozzola, nel parmense, dove i partigiani spezzini vanno ogni anno a ricordare l’eccidio. Si incontrarono a un ballo, dove tutte le ragazze aspettavano “uno spezzino bellissimo”: era un amico di “Sgancia”. Ma Lina scelse lui. Alla fine Sgancia le disse che desiderava rivederla. Dopo qualche giorno le arrivò una cartolina da Lerici. Furono fidanzati per tre anni, lui veniva ogni due settimane: partiva in bicicletta dai suoi Monti di San Lorenzo, sopra Lerici, arrivava a Sarzana per prendere il treno per Valmozzola, da lì camminava in salita un’altra ora a piedi per raggiungere la casa di Lina. Si sposarono nel 1955. Erano giovani, ancora senza figli, e con spirito d’avventura. Volevano andare in Canada, da una parente di lei, ma lì non era possibile emigrare. Nel’apposito ufficio spiegarono a “Sgancia” che in Australia, invece, cercavano personale specializzato. Fece domanda, fu chiamato e partirono alla fine del 1959, per raggiungere l’Australia all’inizio del 1960: 42 giorni di viaggio in nave! Furono ospitati da un amico di lui. Evidentemente erano felici: la figlia Mara nacque esattamente nove mesi dopo! Vissero a Melbourne e in altre città. Lina faceva la sarta, Mara parlava inglese a scuola e italiano in casa, e al sabato mattina frequentava la scuola di italiano per i figli degli immigrati. Quando “Sgancia” partiva per un altro lavoro, il padrone precedente lo implorava di restare, perché era davvero un bravo operaio. “Il lavoro gli piaceva, era la sua passione, con il lavoro papà ha realizzato e valorizzato se stesso”, racconta Mara. Viene in mente “La chiave a stella” di Primo Levi: “Amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra, ma questa è una verità che non molti conoscono”. Davvero il lavoro è il punto di partenza per capire il mondo e l’atto costitutivo della condizione umana. E al centro del lavoro c’è la libertà. Con il lavoro la persona umana realizza e valorizza se stessa, come dice Mara. Mentre la riduzione del lavoro in merce, in cosa, come mera appendice della macchina, della tecnica, è la negazione di tutto questo. “Sgancia” era uno sfruttato, come tutti i lavoratori, ma possedeva ancora la “creatività” del suo lavoro. Per questo la sua esistenza aveva un senso. Oltre che per gli affetti e la famiglia, naturalmente: la fotografia in alto, con “Sgancia”, la moglie, la figlia e la nipote Simona, parla da sola. L’esistenza di “Sgancia” aveva un senso, infine, anche perché lui aveva una concezione del mondo: nel suo caso quella partigiana e comunista. In Australia, infatti, fondò la sezione dell’Anpi “Fratelli Cervi”, con 102 soci, e si iscrisse al piccolo Partito Comunista Australiano. Anche se alle elezioni, in un sistema bipartitico dove si scontrano due partiti, il liberale e il laburista, “Sgancia” votava laburista. Una sera era alla griglia (come sempre!) nel suo giardino in attesa dei risultati elettorali, purtroppo negativi per i laburisti: andò a letto arrabbiato e deluso e si svegliò al mattino con venti metri di muro di legno -il confine con la casa vicina- completamente andati a fuoco per via della brace lasciata accesa…

Nel 1980 tornò, comprò un rudere nella strada per Cerri, tra i Comuni di Lerici e Arcola, e si costruì la sua casa. Lavorò ancora a lungo: a Spezia,a Montalto di Castro, a Reggio Emilia, a Alba… E si impegnò nel Pci e nell’Anpi. Io l’ho conosciuto in quegli anni, l’ho un po’ perso di vista quando ho fatto il Sindaco, e ho ripreso a frequentarlo dopo. Alessio Giannanti, dell’associazione “Archivi della Resistenza”, al suo funerale ha detto una cosa molto vera: “Sgancia non poteva lasciarti indifferente. Una volta che lo si conosceva non si poteva non amarlo”.

Fu partigiano, operaio e comunista, in un’unità indissolubile dei tre “ruoli”. Amava la vita e l’amicizia. Quante mangiate e bevute nel Circolo dei Buongustai, lungo la strada per Cerri! I teorici dell’operaismo lo avrebbero definito un classico esponente della classe operaia, la “rude classe pagana”. Certo, era un uomo semplice, tosto e anche rude. Ma aveva una concezione profonda della vita e della politica. E aveva una grazia innata. Mi ricordo che a Roma, dopo la manifestazione “La via maestra”, mentre eravamo seduti in un bar a bere una birra, una madre gli chiese chi fosse, con quel fazzoletto e quella bandiera; lui fu gentilissimo, le spiegò e accettò di farsi “intervistare” dal figlio di lei e dai suoi amici, che non avevano mai conosciuto un partigiano. Con grazia e con semplicità unita a profondità rispose alle loro domande e spiegò benissimo che cosa fu la Resistenza, battaglia per la giustizia e per la libertà. Come ha detto Alessio: “rappresentava l’idea di una sinistra di classe” e aveva “la grazia delle classi popolari”.

“Sgancia” rimase sempre comunista. Quando si sciolse il Pci, meditò a lungo ma poi decise: “rimango comunista”. Aderì a Rifondazione dopo la nascita del Pds. Ma aveva forte il senso dell’unità della sinistra. E rispetto e tolleranza per tutti, persone e partiti: tranne che per i fascisti. Lo diceva sempre.

“Sgancia” è morto cinquant’anni dopo la morte di Palmiro Togliatti, segretario nazionale del Pci fino al 1964. Ed è sempre stato, da partigiano, da operaio e da comunista, la tipica espressione del partito forgiato da Togliatti: il partito dell’unità antifascista nella Resistenza, il “partito nuovo” della classe operaia, con un ruolo nazionale e non settario, del dopoguerra. Togliatti fu un grande leader politico, pur con tutti i suoi errori e le sue complicità con lo stalinismo: perché indicò con nettezza e coraggio una strada tra due opposte possibilità. Imporsi come partito insurrezionalista e rovesciare il sistema, oppure lavorare dall’interno del sistema, conquistare i propri obbiettivi passo dopo passo contro il massimalismo, e affermare la propria appartenenza al tessuto istituzionale democratico per una transizione graduale al socialismo. Togliatti scelse senza incertezze la seconda strada -quella della “democrazia progressiva” e della “via italiana al socialismo”- contribuendo in modo decisivo a elaborare la Costituzione e a evitare la guerra civile. Va certamente criticata la “doppiezza”, cioè la convivenza tra la “via italiana” e la fedeltà al comunismo sovietico, una “doppiezza” che indebolì la stessa “via italiana”: ma va pur detto che per Togliatti le riforme indispensabili per costruire una società più giusta, fondata sull’eguaglianza nella libertà, erano affidate non a minoranze rivoluzionarie, ma al formarsi di maggioranze e minoranze, cioè alla volontà popolare espressa in Parlamento. Il rispetto di “Sgancia” per gli altri era figlio di questa cultura, che si incentra sull’esclusione prima militare e poi politica del nemico, il fascismo, e nell’offerta di collaborazione alle altre forze democratiche, anche nei momenti di scontro più duro.

Oggi, nell’epoca dei rottamatori, a parlare di Togliatti e del Pci sembra che si evochi il Medioevo. Si tratta invece di un passato che appartiene alla storia della sinistra, che deve costruire il suo futuro con una visione critica del suo passato, non con la sua espulsione dalla storia. Non si tratta di rendere attuali cose che non lo sono più. Io, a differenza di “Sgancia”, ero arrivato alla conclusione che già da tempo il Pci non riuscisse a interpretare adeguatamente le istanze della società italiana, e delle classi lavoratrici in particolare. E pensavo a una sua trasformazione nella direzione di un “socialismo di sinistra”, slegato completamente dal comunismo sovietico, con un programma più “radicale” e meno “moderato” di quello del Pci del “compromesso storico”. Che mettesse ancora al centro il lavoro, facendo i conti con i cambiamenti delle sue forme. Mentre già molti dirigenti comunisti, per non parlare poi di quelli di Pds-Ds-Pd, pensavano che il lavoro non avesse più la centralità che aveva avuto in passato. Ci sono studiosi che sostengono che l’ultimo Togliatti arrivasse a comprendere la necessità del cambiamento: che avesse consumato le certezze assolute che avevano guidato la sua vita, che la morte lo colse in un momento di ripensamento e di sostanziale superamento del “legame di ferro” con l’Urss. E che avesse cominciato a prendere in considerazione l’idea della riunificazione delle sinistre. Non so dire se questa interpretazione sia corretta. Certo è che i suoi successori non riuscirono a fare questo passo. Ora che in Italia la sinistra non c’è quasi più e che il lavoro da fare è quello della sua vera e propria ricostruzione, in un’Italia e in un mondo dove tutto è in vendita, non solo le merci e il lavoro, ma anche i valori, occorre un grande impegno innovativo, ma senza cancellare una storia, come invece è accaduto. Anche per questo non dobbiamo dimenticare “Sgancia”.

Al suo funerale, intenso come lui lo voleva, è stato salutato con il canto dell’”Internazionale”, quella con il testo del poeta Franco Fortini, che rovescia la sconfitta di oggi con il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà. Eccone un verso:

Noi siamo gli ultimi di un tempo – che nel suo male sparirà.
Qui l’avvenire è già presente – chi ha compagni non morirà.

Compagni è un nome molto bello e antico, che deriva dal latino “cum panis”: accomuna coloro che mangiano lo stesso pane. Come nella Resistenza, come nella storia e nel presente della solidarietà e del lavoro. “Sgancia” aveva molti compagni, ecco perché c’è sicuramente un Paradiso anche per lui.

lucidellacitta2011@gmail.com

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