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Ivana, la ragazza che sapeva battere a macchina

a cura di in data 22 Aprile 2013 – 09:18

Mostra del Gruppo Fotografico Obiettivo Spezia “Vedere la memoria”, Centro Allende, 20 aprile – 4 maggio 2013
Pannello dedicato a Adriana Revere, morta ad Auschwitz all’età di 9 anni (2013) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia – 21 Aprile 2013 – Senza memoria non c’è futuro. E nessuno meglio degli ultimi sopravvissuti della straordinaria epica partigiana può tramandare ai giovani quel racconto corale di libertà e democrazia che è stata la lotta di Liberazione dall’oppressione nazifascista. Ecco l’importanza del libro di Vega “Ivana” Gori, scritto con la figlia Maria Cristina Mirabello, “Ivana racconta la sua Resistenza. Una ragazza nel cuore della rete clandestina”, presentato in città nei giorni scorsi. “Ivana” sarà anche la protagonista della manifestazione del 25 aprile al monumento ai Giardini storici: il Comitato Unitario della Resistenza ha voluto infatti dedicare tutte le iniziative del 2013 al ruolo delle donne nella lotta di Liberazione.

Vega nacque nel 1926 a Casalmaggiore (Cremona) da una famiglia di origini toscane. L’antifascismo del padre, anarchico individualista, costretto a cambiare di frequente lavoro, spesso trasferendosi da un luogo all’altro, determinò per la famiglia una situazione di grande precarietà. Dopo varie peripezie i Gori si fermarono a Vezzano Ligure: ed è qui che Vega, sulla scia della scelta dei suoi due fratelli più grandi, aderì alla Resistenza, prendendo il nome di “Ivana”. Aveva studiato da dattilografa, sapeva battere a macchina e fu questo il suo ruolo: lei e la sua fedele macchina Remington vivevano in simbiosi, in case sempre diverse. “Ivana” batteva a macchina verbali, relazioni, comunicazioni, documenti, tutti segretissimi e pericolosi, per conto della Federazione spezzina del Pci e del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale). Inoltre, a piedi o in bicicletta, faceva la staffetta, portando nelle sporte queste carte estremamente delicate. Era una vita nel rischio continuo, con la morte addosso. “Ivana” racconta tanti episodi in cui l’incolse davvero la paura: bombardamenti, rastrellamenti (sfuggì per poco a quello di Migliarina, del 21 novembre 1944), perfino il rischio, e la beffa, di poter morire per “fuoco amico”. E tuttavia, scrive Vega Gori, “io non ricordo quel periodo come pervaso dall’angoscia di poter morire, ma piuttosto caratterizzato dal desiderio di ribellarsi alla brutalità nazifascista”. Insieme a tale “tensione ideale”, c’era anche “una certa dose di incoscienza, tipica della gioventù, e il gusto della sfida”. Come quando decise di tingersi una camicia, originariamente celeste, di rosso, e di indossarla quando passava in bicicletta davanti all’attuale Prefettura, dove erano di guardia elementi della milizia fascista. Durante la presentazione del libro un ragazzo ha chiesto a “Ivana” quale fu la motivazione della sua scelta di aderire alla Resistenza. Lei ha risposto così: “era un momento in cui bisognava scegliere, con i fascisti e i tedeschi, oppure contro, vie di mezzo non ce ne’erano… a me e a molti della mia generazione sembrò giusto stare dalla parte della libertà e della speranza”. Parole che ci riconsegnano la lezione morale della Resistenza, che mai morirà: il bene e il male sono nettamente distinti, bisogna sempre schierarsi da una parte o dall’altra.

Vega “Ivana” Gori con Giorgio Pagano (2013) (foto Tamara Corning)

I motivi di interesse del libro di Vega e Maria Cristina sono molti. Uno ha a che fare con il tema del ruolo delle donne nella Resistenza. Non è un caso che a molti anni di distanza dagli eventi della lotta partigiana, dopo il silenzio ostinato dietro il quale è stato celato per decenni l’agire femminile nel movimento clandestino, molte donne hanno sentito, recentemente più che mai, l’esigenza di raccontare, di accostare le parti della loro memoria e dare loro un senso. Dopo il tempo dell’esperienza “taciuta”, abbandonata al non ascolto della società, è tornato forte il bisogno di trasmettere quello che la mente ha salvato dalla dimenticanza, quel percorso vissuto come evento centrale della propria vita. “Continuo a pensare che la Resistenza sia stata la fase più importante della mia vita, quella che le ha dato luce, arricchendola degli ideali di libertà, giustizia, umanità solidale”, scrive “Ivana”. E’ un concetto che, con parole diverse, esprime anche Vanda Bianchi, castelnovese, la staffetta “Sonia”, autrice con Pino Marchini del libro “Un berretto pieno di speranze” (si veda il mio articolo “Sarà rosa il futuro della politica” sul Secolo XIX del 14 marzo 2011, leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com). O la pontremolese Laura Seghettini, partigiana nei nostri monti al fianco dell’amato, Dante Castellucci “Facio”, poi, alla sua tragica morte, protagonista della Resistenza armata nel parmense, che ha raccolto i suoi ricordi nel libro “Il vento del Nord”, scritto con Caterina Repetti. Testimonianze tra loro diverse, che ci portano a un’analisi storica e politica che ha ormai dei punti fermi. E’ indubbio: senza la Resistenza armata e un esercito volontario che combatté al fianco degli alleati, avremmo avuto un’Italia monarchica, e non sarebbe stata scritta una Costituzione profondamente innovativa sul piano della giustizia sociale e dei diritti civili; così come, senza la Resistenza armata, i partiti antifascisti non sarebbero stati credibili. E tuttavia l’analisi è completa solo se fissa con chiarezza altri due punti.
Il primo: la Resistenza armata ha avuto anche molte donne protagoniste. Come Laura Seghettini: è lei la ragazza con i capelli scuri sciolti sulle spalle, in testa al corteo con la sua divisa di flanella kaki, che appare nelle fotografie scattate a Parma la mattina del 9 maggio 1945, che riprendono i partigiani mentre sfilano tra due ali di folla festante in strada Vittorio Emanuele. Le donne partigiane ai monti ci furono, ma non facilmente accettate da una Resistenza maschilista come la cultura e la società del tempo, e poi facilmente dimenticate. Esemplare, a proposito, la ricorrente esclusione dalle sfilate nei giorni trionfanti dell’insurrezione finale. Laura, che era vicecomandante di brigata, fu un’eccezione. Come quella descritta da Beppe Fenoglio nel racconto “I ventitre giorni della città di Alba”: “Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: -Ahi, povera Italia- perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e s’erano scaraventate in città”. In generale le donne non sfilarono, nemmeno nelle bande garibaldine, cioè comuniste. Segno questo, ha scritto Santo Peli nella sua “Storia della Resistenza in Italia”, che “le tradizionali caratteristiche familistiche e sessuofobiche, ribadite ed enfatizzate da vent’anni di pedagogia fascista, centrata sulle virtù guerriere del maschio e sulla sottomessa vocazione riproduttiva della femmina, non erano certo crollate di schianto il 25 luglio 1943”.
C’è poi un secondo punto: c’è stata anche una, importantissima, Resistenza senza armi, di cui le donne sono state protagoniste. La Resistenza delle dattilografe o delle staffette, come Vega e Vanda, delle deportate come Bianca Paganini (ne ho scritto in questa rubrica il 10 marzo scorso), delle operaie nelle fabbriche, delle contadine che aiutavano i partigiani ai monti… Per molti anni questa Resistenza senza armi ebbe un ruolo subalterno nella gerarchia della lotta di Liberazione: se la gerarchia si sta rovesciando è anche grazie alle autobiografie di tante donne che hanno finalmente affidato alla pagina scritta i loro vissuti.
Il protagonismo femminile nella Resistenza fece emergere, tra le donne, un movimento di consapevolezza, di autonomia, di trasgressione, che si espresse subito negli anni della lotta e anche dopo, nella stesura di una Costituzione che mette al centro il principio di eguaglianza e di parità uomo-donna, per poi rifluire e riemergere negli anni del femminismo. Certo, ci furono limiti, frutto di quella cultura maschilista che ho ricordato: non tutto è nella Costituzione. E tuttavia la Costituzione superò le discriminazioni giuridiche di cui le donne erano state oggetto nello Stato liberale prima e nello Stato fascista poi. La nostra Carta rimane, anche per i diritti delle donne, una rotta ben definita, da percorrere in modo intelligente per andare avanti, come si fece nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia e nel 1977 con la legge di parità, entrambe frutto delle battaglie femministe.
Ma leggiamo, sul ruolo delle donne nella Resistenza, le parole di “Ivana” nel suo libro: “Per tante donne e, fra loro, per molte giovani e giovanissime come me, la Resistenza fu un’occasione importante per affiorare alla luce e per essere parte, in quel momento inconsapevolmente, di cose che sarebbero diventate storiche, a differenza di quanto era capitato al sesso femminile nel corso del passato… Mi resi quasi subito conto del fatto che le donne spuntavano qua e là, molto più di quanto si potesse immaginare e che svolgevano compiti fondamentali. Capii però altrettanto velocemente che, se da un lato eravamo utili perché molto meno sospettabili quando portavamo armi e stampa clandestina, dall’altro lato eravamo in genere guardati dai compagni di lotta maschi con qualche sospetto e che, comunque, c’era il tentativo di collocarci in posizioni subalterne”. “Ivana” aggiunge però che “il discorso cambiava radicalmente nel caso di compagni di lotta con funzioni dirigenti”, che le dimostrarono sempre grande attenzione e capacità di ascolto. Pagine piene di ammirazione sono infatti dedicate ai due dirigenti comunisti più prestigiosi che “Ivana” incontrò: Anelito Barontini “Rolando” e Antonio Borgatti “Silvio”. Sono stato giovanissimo “allievo” di Barontini (ero il membro più giovane del “mitico” Direttivo spezzino del Pci quando Anelito ne faceva parte, poco prima della morte: ogni suo intervento era una “lezione” di politica, intesa come “analisi concreta della situazione concreta”, rigore nello studio, passione per il riscatto dei più deboli) e conosco la vicenda politica di Borgatti: le parole di “Ivana” non sono certo di piaggeria per i capi, ma un riconoscimento alla “sapienza”, come lei scrive, di personalità di grande forza morale e politica.
Poi, nel dopoguerra, Vega sposò il partigiano Giuseppe Mirabello “Apollo”, che divenne funzionario del Pci. Come per Vanda e tante altre scattò la scelta della famiglia, e la rinuncia ad ogni ambizione: “Per me fu naturale scegliere di stare a casa: dato che la vita di un funzionario di partito a pieno tempo era davvero tale, qualcuno avrebbe dovuto pure occuparsi di Maria Cristina… Sposare “Apollo” fu insomma qualcosa di impegnativo perché significò per me “sposare” un po’ anche il Partito Comunista”. In queste parole sentiamo la modestia come connotato di un’educazione ricevuta dallo “spirito del tempo”, che portò la maggior parte delle donne a sacrificarsi per il proprio uomo. Peccato, chissà quanto avrebbero potuto dare ancora di più alla società donne come Vega e Vanda. Ma ora, anche con i loro libri, queste donne tornano all’impegno: vedono lo sfacelo che monta e vogliono tramandare ai giovani “la capacità di fare progetti legati alla forte carica di libertà e giustizia che ci aveva animato”. Non a caso Vega conclude il suo racconto con una bellissima strofa di una canzone di Italo Calvino sulla Resistenza,”Oltre il ponte”, la testimonianza più poetica di questa carica ideale:

“Avevamo vent’anni e oltre il ponte
oltre il ponte che è in mano nemica
vedevam l’altra riva, la vita,
tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte
tutto il bene avevamo nel cuore
a vent’anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l’amore”

lucidellacitta2011@gmail.com

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