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L’acqua bene comune e la salvezza di Acam

a cura di in data 23 Maggio 2012 – 14:35

Appennino tosco-emiliano, panorama dalla vetta del monte Acuto (2011) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia – 20 Maggio 2012 – Il tema della salvezza di Acam si intreccia con un altro tema, quello della difesa dell’acqua come bene pubblico. Sono due obbiettivi in conflitto tra loro, come molti sostengono? Le linee guida del programma elettorale della coalizione di centrosinistra provano a indicare un’altra strada: “Per quanto concerne il percorso di Acam va garantito l’obbiettivo di tutela dei servizi e dei lavoratori attraverso la gara prevista dalla società, garantendo che nel settore idrico le scelte siano compatibili con il risultato del referendum sul carattere pubblico del servizio. Appare in questo senso consono il percorso in atto dell’Amministrazione, che permette, messa in sicurezza Acam, di prevedere poi nuove forme di gestione del servizio quali l’Azienda Speciale”.

Che salvare Acam sia la priorità lo comprendiamo tutti. Vale la pena, prima di verificare la possibilità di tenere insieme i due obbiettivi, di riflettere sull’importanza della battaglia per l’acqua pubblica. E di ricordare che, nel giugno scorso, 27 milioni di cittadine e cittadini si sono espressi, in un referendum, contro la privatizzazione dell’acqua e per la sua difesa come “bene comune”. Il tema va ben al di là dell’orizzonte della nostra città e del nostro Paese: è una grande questione globale. Non a caso l’Onu ha istituito, il 22 marzo di ogni anno, la “Giornata mondiale dell’acqua”. Periodicamente, inoltre, si tiene il “Forum mondiale dell’acqua”, grande assise mondiale organizzata dal World Water Council, un think-tank di natura privata strettamente legato alla Banca mondiale, alle multinazionali dell’acqua e ai Governi più potenti del mondo. Il 6° Forum si è tenuto nel marzo scorso a Marsiglia. In contemporanea, nella stessa città, le associazioni della società civile hanno organizzato, come già in precedenti occasioni, il “Forum alternativo dell’acqua”. Le due posizioni si confrontano da tempo. Secondo il WWC l’acqua è un “bisogno”, e quindi spetta a ciascun individuo darsi i mezzi per soddisfare il bisogno in base alle proprie capacità; ciò comporta che l’accesso all’acqua può dipendere dalla capacità reddituale e, dunque, da un lato essere inibito a chi non può pagare, dall’altro essere consentito in quantità elevate a chi ha il potere di acquisto. La visione alternativa è quella dell’acqua come “diritto”, derivante dal suo essere un “bene comune”; diviene dunque responsabilità della collettività assicurare le condizioni necessarie e indispensabili per garantire l’acqua a tutti. Questa discussione va inserita in un contesto globale in cui l’acqua è un bene vitale che manca a oltre un miliardo di persone, per il quale si combattono guerre palesi o striscianti, che durano anni; è cioè una risorsa strategica al centro di interessi e appetiti enormi. Dovrebbe davvero essere un “diritto” per ogni essere umano, da non ridursi a una merce qualsiasi. Il mondo in cui viviamo è quello in cui si stima che il Maghreb africano, se non verranno prese misure adeguate, andrà verso una crisi idrica che, nel 2050, interesserà il 90% della popolazione di quell’area. Pensiamo davvero che ci si possa inoltrare in questo futuro che è già presente con le categorie concettuali e gli strumenti ai quali ci siamo finora affidati? Parole nuove percorrono il mondo: accesso all’acqua, al cibo, alla salute, alla conoscenza, ad Internet come nuovi diritti fondamentali della persona. Come scrive Stefano Rodotà, “intorno a questa inedita prospettiva sta nascendo un altro genere di cittadinanza, non più legata all’appartenenza ad un territorio, ma caratterizzata dalla dotazione di diritti che ogni persona porta con sé, quale che sia il luogo in cui si trova”. Così, davvero, l’intero mondo si configura come uno spazio “comune”. Uno spazio in cui, per esempio, alcuni Paesi emergenti come Uruguay, Bolivia ed Ecuador hanno voluto introdurre nelle loro recenti e avanzatissime Costituzioni il principio dell’ “acqua bene comune”. O, per fare un altro esempio, i Comuni di Berlino e Parigi si sono ripresi la gestione completa delle acque, sottraendola alle multinazionali.
Ma vediamo ora la situazione dell’azienda spezzina, con particolare riferimento all’idrico. Nel marzo 2011 fu approvato un piano di risanamento che prevedeva la condizione essenziale dell’aggregazione di Acam con il gruppo Hera, mediante la fusione. Ma il quadro normativo si è modificato, a partire dal referendum di giugno per arrivare ai decreti di gennaio 2012, e la fusione con Hera si è rivelata impercorribile. Il Piano prevedeva una serie di azioni volte a riequilibrare la situazione finanziaria, che è sempre peggiorata in questi ultimi anni per tre motivi principali: l’aumento dell’incidenza dei costi operativi e del costo del lavoro rispetto ai ricavi da volumi di attività sostanzialmente stabili e al mancato o ritardato adeguamento delle tariffe idriche e ambientali; l’incremento dell’indebitamento finanziario e dei corrispondenti oneri, principalmente dovuto ai forti investimenti; la lunghezza del ciclo del denaro circolante, a causa dei tempi di pagamento della pubblica amministrazione. Le azioni previste nel 2011 (vendita degli immobili, avvio dell’iter per ottenere la discarica di servizio, adeguamento delle tariffe idriche e ambientali e di alcuni contratti ambientali con i Comuni, mobilità interna e riduzione del personale), rileva il nuovo piano del marzo 2012, “sono state intraprese ma non nella misura e nella tempistica necessaria per riequilibrare la situazione economica e finanziaria”. La crisi si è aggravata, anche perché nel frattempo non sono arrivati né l’aumento di capitale atteso da parte di Hera, né la nuova finanza dalle banche. Il piano del 2012 rappresenta, ha detto l’assessore comunale Davide Natale, “l’ultima chiamata”. E’ stato raggiunto l’accordo sindacale, si lavora all’adeguamento tariffario e alla disponibilità della discarica (ma la competenza è della Provincia); prioritaria è la richiesta di nuova finanza alle banche, insieme alla realizzazione di una nuova concentrazione societaria. Quest’ultima è basata sulla fusione di Acam Acque e Integra (società che si occupa di lettura dei contatori) in Acam Spa, mentre in Acam Ambiente saranno conferite le partecipazioni detenute da Acam Spa in Acam Gas, Acam Clienti e Centrogas Energia, dando vita a un polo energetico di notevole valore. I servizi ambientali, prevede la nuova legge, vanno messi in gara per l’ingresso di un socio privato di minoranza (dal 40 al 49%) entro il 31 dicembre 2012. I proventi ipotizzati serviranno per il risanamento dell’azienda. Come è noto, Acam è senza Amministratore Delegato dall’inizio del 2012. In una situazione di piena emergenza credo che il Presidente Paolo Garbini e i suoi collaboratori, supportati dai Comuni e con l’intesa di sindacati e lavoratori, stiano facendo tutto il possibile. Certo, senza una discarica Acam ambiente non è “appetibile” nella gara per il socio privato: è incredibile come, a distanza di tanti anni, nessun sito previsto dal Piano provinciale dei rifiuti sia ad oggi disponibile. Senza che nessuno se ne accorgesse uno di questi siti (Rocchetta) è nel frattempo diventato saturo! Ma ora è il momento della responsabilità, secondo le competenze di ognuno. E dobbiamo solo augurarci che tutti siano all’altezza. Anche le banche. Perché qualcosa sta finalmente cominciando a cambiare: tutte le aziende operative di Acam non sono più in perdita, il debito, sia pur di poco, è sceso, e ci sono 100 dipendenti di meno. Le banche dovrebbero tenerne conto.
Tornando all’acqua, è chiaro che in questo modo la proprietà e la gestione rimangono pubbliche, ma con il modello privatistico della Spa. Non vedo oggi, realisticamente, altra possibilità. La soluzione migliore sarebbe quella dell’autonomia di Acam Acque. Ma dobbiamo dirci la verità: se Acam Spa fosse compresa nei servizi messi a gara, quest’ultima andrebbe deserta, perché Acam Spa è la holding non operativa, non porta guadagni ma solo costi. Bisogna salvare anche i posti di lavoro di Acam Spa, e quello proposto è probabilmente l’unico modo. Certamente, però, l’Azienda Speciale per l’acqua deve restare nell’agenda politica come obbiettivo. Anche se è un modello concepito per un solo Comune: bisogna quindi studiare come costituirla nel caso di una società, quale Acam, in cui i proprietari sono molti Comuni. Su questo punto il confronto deve proseguire. Fino a porsi il problema chiave: quello delle forme di controllo da parte sia del Comune che dei cittadini. Una risorsa è un “bene comune” quando è legata a forme di democrazia partecipativa. L’esperienza passata di Acam -lo dico anche autocriticamente- ci insegna non solo che una Spa non è facilmente controllabile da parte dei Comuni (soprattutto quando, come nel caso di Acam, la proprietà pubblica è parcellizzata e frammentata e non ha al suo interno un socio con la maggioranza assoluta delle azioni); ma ci insegna anche che un Comune controlla bene solo quando è trasparente fino in fondo, cioè sottoposto a sua volta a forme di “controllo popolare” e di “democrazia dei cittadini”.
Un’ultima questione: il referendum ha anche eliminato, coerentemente alla logica antiprivatizzatrice, la componente di remunerazione del capitale investito dalla tariffa. L’obiezione è: se si fanno gli investimenti, questi non possono non comportare un aumento della tariffa. Ma siamo sicuri che sia condivisibile? In Italia le perdite di acqua dalla rete ammontano al 40%, altrove a molto meno. Ma non perché ci sono tariffe più alte (o, almeno, certamente non solo per questo). Bensì perché i Governi nazionali fanno grandi investimenti pubblici nella manutenzione. A differenza che da noi, dove si spende solo per le grandi opere, tipo Stretto di Messina. La politica dovrebbe rifletterci seriamente.

lucidellacitta2011@gmail.com

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