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La Seconda Repubblica è finita, serve una sinistra vera

a cura di in data 16 Febbraio 2012 – 10:49

Cronaca4, 13 Febbraio 2012 – Su Cronaca4 Marino Tomà, coordinatore cittadino dell’Api, polemizza con un mio intervento apparso sul Secolo XIX, in cui ragionavo sulla necessaria unità tra Pd e Sel per dar vita a “una grande forza di governo della sinistra europea, socialista e ambientalista” e sul conseguente obbiettivo di “sottrarre il Pd a una deriva centrista”. La polemica è fuori luogo: io non ce l’ho con il centro. A me interessa che ci sia una sinistra vera. E il termine “deriva centrista” l’ho preso in prestito dagli esponenti dell’ala laburista del Pd, che la temono per il proprio partito (timore che condivido). E’ l’ala che non vuole che il Pd si trasformi, sono sempre parole loro, in un’“Udc di sinistra”. E che condivide, con Sel, che la foto del futuro sia quella Bersani-Vendola (il che non preclude, ovviamente, alleanze larghe di centrosinistra). Ma è soprattutto il nostro elettorato a volere una sinistra vera. Lo straordinario successo nelle primarie genovesi di Marco Doria, un amico che stimo moltissimo, ha anche e soprattutto questo significato.

Il confronto su questi temi è utile per contribuire, anche localmente, alla discussione sulla costruzione della Terza Repubblica. Il governo Monti è il frutto della crisi di tutti i partiti della Seconda Repubblica: innanzitutto del centrodestra che governava, ma anche del centrosinistra e del Terzo Polo, incapaci di delineare dall’opposizione un’alternativa convincente. Ma il governo Monti prefigura il sistema politico del futuro? Ci aspetta un altro governo di larga coalizione, con dentro tutti o quasi? Non penso che sia auspicabile. Sono d’accordo con Andrea Orlando, uno dei leader dell’ala laburista del Pd: “sì al dialogo tra forze politiche in un clima mutato, ma no alle larghe coalizioni…ci vuole una fisiologica alternanza, gli schemi di emergenza non possono essere protratti all’infinito” (Il Secolo XIX del 12 febbraio). Ma allora destra e sinistra devono rifondarsi, dal punto di vista della cultura politica. della classe dirigente, del rapporto di fiducia con i cittadini. In una parola: diventare partiti veri. Per non tornare, su questo Tomà ha ragione, al bipolarismo malato della Seconda Repubblica. Lo stesso Casini, leader dell’Udc, lo ha capito. Domenica, al congresso del suo partito a Genova, ha dichiarato che in Italia “serve un partito della maggioranza relativa, un partito moderato della Nazione. I partiti così come sono organizzati ora non reggono più. O l’Udc e il Terzo Polo lo capiscono o saranno sommersi anche loro”. Quindi il requiem per il Terzo Polo lo ha intonato Casini…

Ma questi sono problemi dell’Api. A me interessa che in Italia ci sia un altro partito di maggioranza relativa, per dirla con Casini: un partito di sinistra, con un nucleo valoriale che fonda in sé il valore dell’eguaglianza, della dignità della persona e dei suoi diritti civili e sociali, il valore del lavoro, del protagonismo della donna, della responsabilità umana verso la natura, della democrazia partecipata, della pace. Un partito che affronti la questione sociale e il principale problema del nostro tempo: le diseguaglianze. Sono i duri fatti della realtà che richiamano la necessità di un partito così. Che si collocherebbe in questo modo nella prospettiva storica della nazione, con una “funzione nazionale”, come si sarebbe detto una volta. Perché la nazione ha bisogno che la sinistra non scompaia.

Anche l’operato del governo Monti richiama la necessità della sinistra. E’ chiaro che lo scontro sull’articolo 18 può cambiare il segno del governo: perché la sua modifica nel senso di liberalizzare i licenziamenti non serve ad attirare investimenti stranieri né a aumentare la produttività. E’ solo un simbolo politico su cui porre le basi della Terza Repubblica, per rimuovere ogni intralcio al neoliberismo: il potere contrattuale residuo dei lavoratori, sindacati e partiti indeboliti. La logica è la stessa del ministro Sacconi, quello di Berlusconi. Ma ormai il vecchio centrodestra è troppo ammaccato: per le grandi forze economiche serve un’altra coalizione politica, a cui i tecnici facciano da battistrada. E’ la strategia che punta a immettere i codici dell’economia nel cervello della politica. La sinistra è sfidata nella sua stessa sopravvivenza. Ed è chiaro che “se il Pd fosse solo l’esecutore più affidabile dei comandi della Bce, potrebbe anche chiudere bottega”: sono parole non mie, ma di Claudio Sardo, direttore dell’Unità. Sono d’accordo: guardiamo al di là della tregua siglata con la guida tecnica e ripensiamo a una sinistra che parta sempre dal riscatto dei lavoratori e dei più deboli e non ascolti più il canto delle sirene neoliberiste. E’ la sinistra “massimalista” che teme Tomà? No, è la sinistra della Costituzione.

Infine devo una risposta al dirigente dell’Api sulle modalità di finanziamento dell’Associazione Culturale Mediterraneo, che presiedo. Fa sorridere che si preoccupi di questo, di fronte allo tsunami che purtroppo ha colpito il segretario nazionale del suo partito proprio in materia di finanziamenti, ma so bene cos’è diventata la lotta politica di questi tempi e non mi stupisco. Rispondo quindi volentieri. Con una precisazione: Mediterraneo non è “neonata”, come dice Tomà, ma è stata fondata nel luglio 2008 e ha tenuto la prima delle sue 83 iniziative (con oltre 8.000 presenze) nel novembre 2008. E’ un’associazione plurale, composta da 240 soci di diverso orientamento politico e culturale, uniti dalla passione per il dibattito delle idee e per il pensiero critico e riflessivo. Siamo tutti volontari, e finanziamo le iniziative con le quote associative e con piccole sponsorizzazioni di imprese spezzine. Il nostro sito riporta la documentazione di tutte le iniziative, compreso l’invito, in cui è presente lo sponsor. Inoltre collaboriamo spesso con le istituzioni, le scuole e altre associazioni: in tal caso le spese vengono suddivise. La sede, infine, ci è stata messa a disposizione gratuitamente da una socia, Adriana Antoni. Se ho un orgoglio, è quello di lavorare nell’ufficio che fu di un grande sindaco della città, suo padre Varese.

Giorgio Pagano

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