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“Alla mia Sinistra” di Federico Rampini

a cura di in data 1 Gennaio 2012 – 17:55

Federico Rampini, “Alla mia Sinistra”

Già da molti anni Federico Rampini ci ha abituati a nomadizzare, con i libri su Cina, India, America. Ma questa volta si ferma, mescola le cose viste, ed estrae una sua sintesi. Questa volta il giornalista errante vuole influire sulla pòlis, e specialmente sulla provincia della pòlis che gli è vicina: la sinistra. Il suo ultimo libro è una lettera (Alla mia sinistra, Mondadori) e il nomade si trasforma in pedagogo, che insegna l’arte preziosa che ha appreso: lo sguardo cosmopolita. Il suo cosmopolitismo non nasce da una dottrina, da cui viene dedotta l’apertura, curiosa, al diverso. Nel suo cammino verso la condizione di cittadino del mondo, Rampini adotta il metodo induttivo. È esplorando realtà e fatti lontani che le lenti cosmopolite si impongono, come unico metodo per capire il presente: grazie a esse scopriamo che Italia, Europa, Occidente, sono frammenti d’un mosaico più vasto, e sorprendente. Chiusi nei recinti nazionali, crederemo di vedere, ma non vedremo. È una delle lezioni del libro. Il lettore sarà impressionato dalla mole di notizie sul miracolo economico di India, Cina, Brasile, o sulla globalizzazione che si fa caos cruento ai confini tra Messico e Stati Uniti (viene in mente l’atroce serie di morti in 2666 di Roberto Bolaño). La sua Cindia (Cina+India), il suo Brasile, la sua America, ci pare di conoscerli un po’ anche noi, quando chiudiamo il libro: di penetrarne splendori e miserie.
Vediamo un capitalismo che secerne al tempo stesso prodigi e degradi inauditi, in incessante movimento. Vediamo meglio noi stessi, e come tuttora ci illudiamo di essere centro del mondo. Il bello del libro è che ne esci lettore in metamorfosi: una strana condizione, non dissimile dalla scoperta, nella pittura pre-rinascimentale, della prospettiva. È fatta di antinomie la prospettiva: di spazi scoperchiati. Siamo abituati a parlare di recessione, dopo il collasso del 2007-2008, ma non tutti la vivono così. Per un’enorme parte della terra (i Bric, cioè Brasile, Russia, India, Cina) la crisi non è Grande Contrazione. È nuovo inizio, promesso a milioni di reietti. È una formidabile “redistribuzione della speranza”, scrive l’autore. Si accompagna a svolte geopolitiche di cui appena ci rendiamo conto: non si contraggono solo i nostri consumi, il nostro welfare. Si raggrinza l’America del Nord, come l’Europa dopo le guerre del ‘900. Sono passati appena dieci anni, da quando Washington si autoproclamò nuova Roma imperiale: la malinconia cattura ora anche lei, come catturò l’Europa. Gli spiriti animali del capitalismo, euforici, hanno traslocato in Brasile, Cina, India. Lì la Storia ricomincia.
C’è un interrogativo cruciale posto da Rampini: “Poteva andare altrimenti?” Erano fatali, in Occidente, il naufragio delle speranze e della politica, il predominio di anonimi poteri finanziari cui per decenni è stata concessa la sregolatezza, la frode degli impuniti, il baratro infine che ha risucchiato il nostro capitalismo? Non era affatto ineluttabile, tutto poteva andare diversamente se avessero prevalso la legge, l’etica pubblica. Chi ha visto il terribile film di Charles Ferguson sulla crisi, Inside Job, sa di che parliamo. Non era fatale che la sinistra s’insabbiasse nel mimetismo, cedesse al caos del mercato: soprattutto l’osannata sinistra riformista di Clinton, Blair, che facilitò l’egemonia della destra e la sua letale deregolamentazione.
Rampini non esita a parlare di plutocrazia: un termine forse troppo incandescente (fu usato dai fascismi contro la democrazia). Quel che è osceno, nel potere della ricchezza, è l’uso che se ne fa: la disuguaglianza patologica che ha prodotto, l’arroganza imperiale, l’assenza di limiti, dunque di morale. La crisi ha rivelato una corruzione mentale profonda delle élite, e il declino della morale occidentale è l’evento del secolo. Il 29 gennaio 2002, poco dopo l’11 settembre, Paul Krugman scrisse un memorabile articolo sul New York Times (The great divide): non era stato l’11 settembre a “cambiare ogni cosa”. Il punto di svolta che smascherò il nostro marciume, lo ricorda anche Rampini, fu lo scandalo Enron, la gloriosa società legata a Bush e Dick Cheney, travolta il 2 dicembre 2001 dal falso in bilancio.
Tutto poteva andare diversamente: da quest’analisi autocritica urge partire. La storia non si fa con i se ma la coscienza storica sì. L’Europa sarebbe diversa, se fosse stato attuato il piano Delors su comuni investimenti, finanziati da euro-obbligazioni. Se l’euro non fosse restato senza Stato. Se qualcuno avesse voluto davvero “cambiare il gioco”. Rampini riserva parole dure a quel che disse Tommaso Padoa-Schioppa, quand’era ministro dell’economia: “La tasse sono una cosa bellissima”. Forse dimentica che bellissima per lui non era l’azione del pagare, ma l’idea che il consumatore si sentisse contribuente a beni comuni (strade, scuole, trasporti): frasi del genere, eretiche, “cambiano il gioco”. Rampini stesso denuncia la rivolta americana del Tea Party contro statalismo e fisco. È la conferma che spesso votiamo contro noi stessi: “Per un’illusione ottica sconcertante, o un miraggio collettivo, il 16 per cento degli americani è persuaso di appartenere all’1 per cento dei più ricchi (…). L’idea che qualunque intralcio alla libertà di mercato ci rende tutti un po’ più poveri, e prigionieri di uno Stato oppressivo, ha una forza irresistibile nella cultura di massa americana”.
Se le cose potevano andare diversamente ieri, tanto più oggi. La scoperta della prospettiva (di un pianeta non più dominato dall’occidente) aiuta a escogitare modi di vivere diversi, adatti alla Grande Contrazione. Modi cui Rampini dedica il bel capitolo finale: basati sulla sottrazione, non sull’addizione del superfluo. Sono vie percorribili e non tristi, contrariamente a quel che si disse quando Berlinguer o Carter parlarono (nel ’77 e ’79) di austerità. Proprio i paesi emergenti inventano oggi crescite ecologicamente vigili. Il Brasile escogita l’automobile di biofibre, o il bioetanolo ricavato da canna da zucchero. Per scoprire nuove idee basta guardare dove la speranza rinasce. Basta inforcare gli occhiali cosmopoliti.
Di una cosa l’autore è convinto: l’egemonia culturale, dopo la crisi petrolifera del ’73, è la destra anti-Stato a conquistarla. E il fallimento non sembra intaccarla. È la vera sfida che la sinistra ha di fronte. Ma come nell’800 e ‘900, la socialdemocrazia è forse la soluzione. È socialdemocratico il Brasile di Lula. È socialdemocratico il modello tedesco, austero custode dello Stato sociale anche quando governano i democristiani: unica alternativa alla Cina, secondo Rampini. Tutto questo, Rampini lo scrive alla sinistra, perché non abbia paura di “cambiare il gioco”. Perché apprenda la prospettiva. Perché non viva anch’essa, come i populisti, nella “menzogna permanente”. Perché non diventi, come Obama, un soldato missing in action, che non dà più segno di vita: o perché morto in battaglia, o perché caduto in mano nemica, o perché disertore.

Fonte: http://www.repubblica.it/politica/2011/11/01/news/libro_rampini-24215198/

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