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La mostra sul PCI s’è persa i ceti popolari

a cura di in data 26 Maggio 2011 – 14:09

Il Secolo XIX – 26 maggio 2011 – Qual è l’effetto della mostra sul Pci a Palazzo Ducale su chi, come me, proviene dall’esperienza di quel partito e ne è stato dirigente? Nessuna nostalgia per una vicenda irripetibile, ma qualche riflessione preoccupata sì.
La “cifra” principale della mostra è questa: il carattere di popolo di quel partito. Il Pci fu fattore di riscatto per grandi masse popolari, le quali ebbero un posto nella storia d’Italia come mai prima, e  contribuì a costruire una nuova democrazia dei partiti. La sua originalità democratica fu certamente determinata dalle condizioni in cui si trovò ad operare (l’Occidente) ma fu anche frutto delle idee di Gramsci e di Togliatti e del fatto di avere tra i  propri padri i pionieri del socialismo italiano. Il Pci non era solo figlio dell’Urss, eppure il legame con l’Urss lo ruppe solo tardi, tardissimo, bloccando così la democrazia italiana e contribuendo alla sua crisi. Questo è il segno tragico di una vicenda che ebbe però anche un segno positivo: il partito come straordinario strumento di emancipazione umana dei più deboli.
Si esce dalla mostra con una sensazione di vuoto. Perché è stato smarrito il filo con la storia più profonda delle masse popolari italiane? Perché oggi è tutto così “leggero”? E’ vero, il tramonto dell’Occidente e la globalizzazione hanno tagliato le gambe alla “centralità operaia”, ma i più deboli ci sono ancora. Anzi, l’Italia è sempre più povera: l’Istat ci spiega che un italiano su quattro è a rischio povertà, mentre il sondaggio Demos rivela che per la prima volta le persone che si collocano nella “classe operaia” e tra i “ceti popolari” superano quelli che si sentono “ceto medio”. Sono, però, senza un’identità, senza una politica in cui riconoscersi. Tutto è cambiato rispetto ai tempi del Pci, tranne una cosa: la divisione tra i deboli e i forti. Quelli che comandavano, comandano ancora. Prima avevano la terra, ora sono proprietari di tutto un altro mondo materiale  e virtuale. Non è vero che le differenze di classe non contano più, che c’è solo l’interesse comune. I potenti, al contrario, non sono mai stati così ricchi e al sicuro, così certi della loro indiscutibile ragione. Così volgari nella loro egemonia.
Doveva proprio finire così? Il tramonto di Berlusconi è davvero triste. E sarà triste ascoltare i suoi adulatori odierni disprezzarlo a piene mani quando cadrà. Ma chi sta dall’altra parte può dirsi innocente rispetto al privatismo e al cinismo di questi anni? Perché abbiamo seguito le orme degli altri, usando troppo spesso le loro stesse parole, mostrando troppo spesso la loro stessa brama di apparire? Perché sembriamo confusi in mezzo allo stesso gruppo?
La storia del Pci ci dice quale fu l’errore principale: il 1956, la scelta di stare con l’Urss che reprimeva la rivoluzione ungherese, e poi il rifiuto della scelta socialista riformista che fece la socialdemocrazia tedesca a Bad Godesberg nel 1959. La costruzione di un grande partito socialista riformista non si verificò nemmeno dopo il crollo del muro di Berlino e la fine del Pci: pur di non dirsi socialisti ci si disse “democratici”, e ci si ritrovò subalterni al liberismo e al leaderismo della destra. Era il periodo delle “deviazioni” dal pensiero originario di Bad Godesberg, come il blairismo e la terza via, che tanto hanno influenzato la sinistra non solo italiana: si pensi a Zapatero, incapace di affrontare con una progettualità alternativa la speculazione finanziaria e il controllo del mercato da parte delle oligarchie economiche, e per questo punito dagli elettori spagnoli. Ma proprio il fallimento delle “deviazioni” ci insegna che bisogna ripartire dal pensiero originario del socialismo riformista per costruire una progettualità alternativa. Come stanno provando a fare, spostandosi a sinistra, i socialisti tedeschi, inglesi e francesi.
Due parole chiave possono aiutarci nella riflessione che ci stimola la mostra: “sinistra” e “partito”. Lo stesso voto amministrativo ci dice che è il momento di costruire una proposta autonoma della sinistra: non è lo schema a cui pensava il vertice del Pd, ma ormai è imposto dalla realtà elettorale. Anche Eugenio Scalfari, tra i più ascoltati consiglieri del vertice del Pd, lo ha riconosciuto: “l’asse sociale della politica italiana si è spostato a sinistra”. Bisogna costruire una sinistra nuova, che unisca Pd, Sel, Idv e forze della società civile, rispondendo così a un bisogno diffuso: perché la sinistra è una necessità sociale  e culturale.
Più difficile sembra il compito di ridare alla politica un solido partito strutturato, radicalmente diverso da quello del passato. Ma sarebbe miope archiviare questo tema: il realismo del proposito si ricava in negativo, dalla percezione cioè del disastro provocato dalla lunga stagione del populismo, del leader solo al comando e dei partiti “liquidi”, mere macchine elettorali. Fino alla confusione tra fantasia e realtà oggi a Milano, dove impera Cetto La Qualunque. E’ su questo crinale stretto, che da un lato si affaccia sul tramonto del vecchio modello di partito della prima Repubblica e dall’altro sul fallimento del modello plebiscitario della seconda Repubblica, che deve muoversi la strategia di elaborazione di una nuova forma-partito.

Giorgio Pagano
L’autore è presidente di Funzionari senza Frontiere e segretario generale della Rete delle Città Strategiche; alla Spezia presiede l’Associazione Culturale Mediterraneo

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