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Fiom o Montezemolo? É tempo che il Pd ritrovi la bussola

a cura di in data 18 Ottobre 2010 – 14:43

Il Secolo XIX 18 ottobre 2010 – La grande manifestazione della Fiom ha un senso preciso: c’è un popolo che torna a farsi voce e che ricorda non solo al Governo ma anche a una sinistra distante che le ingiustizie sociali stanno aumentando a dismisura nel nostro Paese. L’Italia è tra le nazioni a più alto tasso di diseguaglianza interna, nell’apposita classifica stilata tra i trenta Paesi dell’Ocse. È sesta, superata solo da Messico, Turchia, Portogallo, Stati Uniti e Polonia. Un popolo di donne e uomini in carne ed ossa ci ricorda questa verità rimossa e ci invita a recuperare la dimensione del lavoro come “bene comune” e interesse generale, come base democratica  e civile del nostro Paese, così come sancito dalla Costituzione. E si riprende in questo modo l’attenzione che gli spetta. In piazza c’erano gli operai e non “i politici in auto blu”, come ha detto con una battuta sgradevole Francesco Boccia, dirigente del Pd. Che probabilmente non sa che la Fiom ha chiuso il tesseramento 2009 con oltre 363.000 iscritti, con il maggior incremento degli ultimi trent’anni. E che il 20% sono lavoratori che aderiscono per la prima volta  a un sindacato. Questi operai non sono un culto degli anni ’70 ma la modernità in cui viviamo, e ci chiedono non un ritorno all’antico ma una politica moderna vicina alla loro fatica quotidiana. E la loro, ha ragione Sergio Cofferati, è “una moderatissima piattaforma sindacale”: nulla a che vedere con “l’estremismo politico” di cui tanti parlano a vanvera.
La politica deve ascoltare questo popolo e scegliere. Schierarsi, innanzitutto, sulle scelte della Fiat di Sergio Marchionne. Siamo di fronte a scelte “obbligate” e “oggettive” per un’azienda che vuole essere competitiva nella globalizzazione? Non è così, non tutte le fabbriche del mondo chiedono di rinunciare a un diritto costituzionale come quello di sciopero; e tante destinano alla qualità e all’innovazione ben più del 4% del fatturato, la cifra della Fiat. Se si guarda, nel mondo, alle aziende del settore auto che ottengono i risultati migliori, si vede che la differenza non sta nei salari o nei diritti dei lavoratori ma nella qualità e nell’innovazione dei prodotti. Non ci si deve rassegnare, quindi, all’idea che di fronte alla globalizzazione non c’è diritto che tenga. Bisogna essere chiari: l’accordo di Pomigliano non è un’eccezione, ma la proposta di un modello di impresa. Non a caso è stato seguito dall’accordo separato che prevede che si possa derogare al contratto nazionale sempre, sia quando l’azienda è in crisi sia quando investe per competere sui mercati: il modello Pomigliano porta alla cancellazione di quel fondamentale strumento di coesione che è il contratto nazionale, alla “guerra” tra imprese e quindi alla contrapposizione tra lavoratori. Pierre Carniti, già leader della Cisl, ha chiesto: “Cosa c’è dopo il contratto nazionale? Me lo spieghino, io non vedo nulla, nessun disegno strategico plausibile”. La politica deve dare una risposta, dire se è d’accordo o no con Marchionne. Così come deve pronunciarsi sul tema decisivo della democrazia: tutti gli accordi per essere validi devono essere approvati dalla maggioranza delle persone coinvolte; va fatta, finalmente, la legge sulla rappresentanza sindacale prevista dalla Costituzione.
Il tema del lavoro è cruciale, in particolare, per la sinistra. Perché la crisi del centrodestra non giova all’opposizione? Le ragioni stanno nella storia di un ventennio, in cui la sinistra, europea e italiana, ha pensato di poter gestire la globalizzazione piegando ai propri fini gli strumenti dell’avversario (privatismo e deregulation) finendo però per rimanere impigliata in questi strumenti fino a farli propri. Il suo racconto alternativo è venuto meno, e il suo tessuto sociale si è lacerato. Si pensi a Josè Luis Zapatero: senza una politica di riduzione della spesa pubblica e una riforma fiscale all’insegna della giustizia sociale, la sinistra va a destra e cola a picco nei consensi. Con la crisi ritorna centrale, come ha scritto Piero Ignazi, “la domanda di un’economia giusta”. E la sinistra può riconquistare i consensi popolari riscoprendo il lavoro, l’eguaglianza e il conflitto sociale, che in una società moderna esiste  e ha comunque un ruolo propulsivo, e non può essere messo fuori gioco e ridotto al rango di patologia. E’ per questo che dal Labour di Ed Miliband e dal Ps di Martine Aubry risuonano parole nuove, non più subalterne al neoliberismo. Insomma, nella sinistra europea si è riaperto un conflitto tra “neolaburisti” e “neocentristi”.
Il punto è capire che scelta farà il Pd, profondamente diviso al suo interno. Pierluigi Bersani, prima e dopo la sua elezione a segretario, ha richiamato l’ispirazione “neolaburista”, contrapposta all’idea veltroniana del “partito pigliatutto” (che “pigliò” pure Massimo Calearo!). Ma sconcerta vedere quanto oggi il Pd abbia poco da dire. Si può anche scegliere, a differenza di Nichi Vendola, di non schierarsi con la Fiom e la Cgil contro la Cisl. Ma servirebbe allora un impegno politico diretto nel mondo del lavoro, con proposte capaci di influenzare e avvicinare i sindacati. Se manca, vuol dire, come ha scritto Alfredo Reichlin, che la sinistra si è davvero smarrita. Fino a pensare di candidare a premier Luca di Montezemolo, come ha fatto un dirigente del Pd, Goffredo Bettini. Ma con quale idea dell’Italia, con quale progetto di società?

Giorgio Pagano
L’autore si occupa di cooperazione in Palestina e in Africa ed è segretario generale della Rete delle Città Strategiche. Presiede, alla Spezia, l’Associazione Culturale Mediterraneo.

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