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Credenti e atei devono cercare un’etica condivisa

a cura di in data 6 Aprile 2009 – 10:36

Il Secolo XIX – 6 aprile 2009 – La sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittime alcune delle norme più significative della legge sulla procreazione assistita crea le condizioni per arrivare a una sua riforma in grado di bilanciare i valori della tutela dell’embrione e della salute della donna, ma aiuta anche nel difficile esame del disegno di legge sul testamento biologico, di cui deve ora occuparsi la Camera. Nel senso che spinge anche in questo campo per bilanciare i valori: quelli della tutela della vita e della libertà delle persone di decidere la propria morte. In una direzione, del resto, verso cui politicamente aveva già spinto Fini con l’ intervento al congresso del Pdl.
Il tema sul tappeto è quindi quello della necessità del dialogo e della capacità di saperlo praticare da parte non solo di Pdl e Pd ma anche di tutte le tendenze etiche  e religiose del Paese. Abbiamo bisogno di mettere in gioco, da tutte le parti, una autentica passione etica, senza pretendere di portare l’intera nostra verità nella politica. Nessuno di noi può portare per intero la sua concezione del mondo nella politica, cioè nella legge, che deve valere anche per chi non condivide i nostri valori. Lo avvertiva bene l’allora cardinale Josef Ratzinger nel dialogo con il filosofo Juergen Habermas: “Se lo Stato accetta il fondamento religioso – scriveva- smette di essere pluralistico. Così sia lo Stato che la Chiesa perdono se stessi”.
Dobbiamo allora sostenere le nostre convinzioni nel dibattito pubblico con serenità, cercando di capire i motivi delle argomentazioni altrui, ed essere disponibili ad apprendere, ad autolimitarci e a  ricercare intese, compromessi, contaminazioni, bilanciamenti. Dentro la cornice della laicità delle istituzioni, intesa come disponibilità da parte di tutti a condividere un terreno comune di valori: quelli costituzionali, che presiedono alla convivenza politica tra diversi in una democrazia. Personalmente ritengo che il terreno comune su cui credenti e non credenti possano dialogare e collaborare sia più ampio ancora: sta nella predicazione evangelica di Gesù di Nazareth, che condanna le ingiustizie e difende gli ultimi. Le idee forza del costituzionalismo moderno, del resto, hanno una matrice religiosa, dalla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti alla Dichiarazione francese dei diritti.
Il dialogo è molto difficile, soprattutto in Italia, ma dobbiamo provarci. Per farlo dobbiamo andare alla radice delle polemiche attuali, per superarle con il confronto ed il riconoscimento reciproco. Mi riferisco sia alla polemica contro l’offensiva del Vaticano per condizionare la politica e la legislazione italiane, sia  a quella contro l’offensiva laicista per spingere la religione a fatto privato e confinarla in una sfera puramente interiore. Dobbiamo cercare di guardare ai problemi in una prospettiva più ampia.
In primo luogo occorre partire da un presupposto: la teologia cristiana, e quella cattolica in particolare, ha una vocazione ad occuparsi del mondo per trasformarlo: senza di essa il messaggio evangelico si sarebbe estinto. La Chiesa cattolica ha commesso errori, e orrori, compromettendosi con il potere, ma ha  anche cambiato e migliorato il potere. La politica, come impegno a modificare la realtà, è intrinseca alla religione cattolica, ne è il cuore. Bisogna partire da questo presupposto per capire il problema, tanto più oggi: nelle nostre società si avverte in maniera drammatica la precarietà dell’esistenza umana, si è spenta la speranza nel futuro e la politica è entrata in una crisi profonda. Diventa più forte una domanda di senso sul fondamento del nostro stare insieme: ecco perché c’è un ritorno religioso e perché riemerge l’autorità della Chiesa. Che consiste anche in una funzione critica del modello capitalistico e dei suoi stili di vita, in un impegno per la pace, contro le disuguaglianze tra Paesi ricchi e Paesi poveri, per la solidarietà sociale, per l’accoglienza degli immigrati nelle nostre società. Chi ha conservato un orizzonte critico rispetto al mondo attuale dovrebbe dire alla Chiesa di fare più, non meno politica.
Certo, la Chiesa deve fare politica ma non deve trasformarsi in un soggetto politico, non deve occupare il posto della politica e negare la sua autonomia. Non a caso tutto il Cristianesimo moderno si è formato sulla separazione tra quel che è di Cesare  e quel che è di Dio. Questo è il punto chiave: la religione deve guardarsi dal rischio del fondamentalismo, che la trasforma in strumento di potere. Chi crede non  può imporre con l’arma della legge la sua visione del bene. Significherebbe tornare indietro di duecento anni. Così come la religione deve guardarsi dall’uso spregiudicato che cerca di farne una politica in crisi.
L’altro punto chiave riguarda i non credenti, che devono aprirsi al rispetto e al riconoscimento del ruolo umanistico della dimensione religiosa dell’esistenza umana. Anche qui è bene partire da un presupposto: l’idea che la religione potesse essere confinata nella sfera privata, che era dominante nella fase culminante della secolarizzazione, è tramontata. E’ stata superata dal concreto svolgersi delle vicende storiche.
Serve fare chiarezza su questi due punti per superare  le polemiche. Ed entrare, con pudore  e mitezza, nel merito del tema più ostico del confronto: la bioetica, la biopolitica, la novità della  tecnica che entra nella vita. Tutto ruota attorno al principio, assunto dalla Chiesa, della totale indisponibilità della vita in quanto dono divino. La radicalità di questa formulazione è recente, ed è l’esito di un percorso travagliato: la Chiesa, in altre epoche, la pensava diversamente (si pensi alla guerra e alla pena di morte). Quindi questo enunciato è una conquista positiva. Il punto è che la vita è oggi interamente attraversata dalla tecnica. Vale per la vita nascente come per la sua fase finale. In entrambi i casi va ricercato un equilibrio tra libertà e responsabilità. Accenno, in questa sede, solo alla fine della vita: si stanno moltiplicando, e si moltiplicheranno sempre più, le occasioni per sperimentare forme intermedie tra la vita e la sua fine. E’ la vita artificiale,  delle macchine  e dei tubi. Una zona grigia, che penso vada sottratta alla regola dell’indisponibilità della vita e riconsegnata al nostro diritto di scelta. Perché se io, in questa zona grigia, dico “lasciatemi andare” non dispongo della mia vita, ma dispongo di una tecnica. Non bisogna affermare l’indisponibilità del controllo di una tecnica, non bisogna affidare la libertà dell’uomo all’oggetto che ha creato.  Qui deve intervenire la legge: ma va riaperto un confronto politico e culturale vero. Ricordo ciò che Josef Ratzinger scriveva nel “Catechismo”, e che rende incomprensibili le ultime prese di posizione del Vaticano: certe cure particolarmente gravose e senza esiti vantaggiosi possono essere “omesse lecitamente  e perfino doverosamente. Il malato ha diritto di morire con dignità”. Già Paolo VI, nella sua lettera ai medici cattolici del 1970, chiedeva di evitare “l’inutile tortura”. E tutti i documenti e le encicliche dal 1980 al 2000 in materia di fine vita contengono considerazioni analoghe: il rifiuto di sottoporsi a cure speciali è definito “semplice accettazione della condizione umana”. Il dialogo e le soluzioni per “un’etica condivisa”, per citare il titolo dell’ultimo libro di Enzo Bianchi, priore di Bose, sono quindi possibili. E’ questo il problema centrale delle nostre società: non ricreare vecchi steccati tra credenti e non credenti ma ridefinire, tutti insieme, i nuovi fondamenti di questa “etica condivisa”.

Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).

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