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Assurdo scommettere sul fallimento di Kyoto. La sfida dell’Italia é darsi una politica sull’ambiente

a cura di in data 2 Gennaio 2009 – 10:22

Il  Secolo XIX – 2 gennaio 2009 – Il recente accordo europeo sul clima ha ribadito gli obiettivi fissati per il 2020: taglio del 20% delle emissioni dei gas serra, aumento del 20% delle energie rinnovabili, miglioramento del 20% dell’efficienza energetica. Quasi tutte le richieste del governo italiano non sono state accolte. Quel poco che è cambiato per l’industria italiana è merito delle pressioni riservate dei tedeschi e non delle minacce del nostro premier. A Bruxelles, dunque, è partito un impulso per cambiare marcia e mettere in campo politiche conseguenti.
L’accordo si è fatto per due ottime ragioni. La prima è che l’opinione pubblica è largamente convinta che “resistere al cambiamento climatico”, come recita il titolo del rapporto Onu 2007, è decisivo per il futuro delle nostre società. E non è in sintonia con le parole di Berlusconi, pronunciate qualche giorno prima: “E’ assurdo parlare di clima quando c’è la crisi: è come se uno con la polmonite pensa a farsi la messa in piega…Questa non è l’ora dei Don Chisciotte, abbiamo tempo”. Ma i climatologi ci dicono che ci rimangono otto anni per riuscire a incidere veramente sulle emissioni dei gas serra e che l’assottigliamento del ghiaccio dell’Artico ha superato le previsioni più pessimistiche. E, per parlare dell’Italia, che il nostro Sud entro la fine del secolo si trasformerà in un paesaggio simile al Sahara. Come ha detto lo scrittore Ian McEwan “la faccenda sta passando da questione di virtù, idealismo e tetri inviti all’abnegazione, tutte cose di cui governi, mercati ed elettori diffidano, a una questione di necessità, argomento per cui tutti portiamo rispetto”.
La seconda ragione è che risulta sempre più evidente che interesse ambientale e interesse economico finiscono per coincidere e che mettere in competizione ambiente e economia è sbagliato. “La crisi economica rappresenta una ragione in più, non una in meno per impegnarsi nella lotta al cambiamento climatico”, ha scritto l’ex chief economist della Banca Mondiale Nicholas Stern, perché “il motore della produzione può ripartire solo se ci diamo l’obiettivo di una rivoluzione tecnologica di portata epocale”. La crescita e l’energia verde sono collegate: è la tesi di Obama, che si è impegnato, all’insegna di un inedito binomio tra Keynes e ecologia, a ridurre dell’80% le emissioni di gas serra entro il 2050, a investire 150 milioni di dollari nelle rinnovabili e nel risparmio energetico e  a creare 5 milioni di posti di lavoro.
Purtroppo la nostra destra, all’opposto della destra francese, tedesca, britannica non sa vedere questa necessità e questa convenienza economica. Recentemente Il Giornale ha preso in giro Veltroni che stava programmando un viaggio al Polo Nord: peccato che questo viaggio simbolico sia già stato compiuto nei mesi scorsi dalla Merkel e da Cameron. E noi abbiamo perso terreno nei confronti di questi Paesi, non solo nelle rinnovabili ma anche in tutti i campi del risparmio energetico, dove pure avremmo punti di forza: trasporti, edilizia, illuminazione, elettrodomestici, recupero materiali… Abbiamo scommesso sul fallimento di Kyoto, mentre la Germania creava un’industria delle rinnovabili con 250.000 lavoratori e la Francia decideva di creare entro il 2011 una centrale fotovoltaica in ogni regione. Teniamo in qualche cassetto il decreto attuativo della riforma degli incentivi alle rinnovabili approvata dal governo Prodi, mentre altrove si sta sconfiggendo il pregiudizio contro le rinnovabili, quello secondo cui sarebbero destinate ad incidere in modo irrilevante sulla produzione di energia. In zone di Spagna e Germania già ora il solare e l’eolico contribuiscono fino al 25% dell’energia totale, pur in un quadro in cui l’energia fotovoltaica solare è molto costosa. Ma quando la ricerca riuscirà ad abbattere i costi…
Il prossimo anno c’è l’appuntamento, a fine novembre, di Copenaghen: la conferenza che sarà il vero successore di Kyoto, probabilmente l’ultima speranza di affrontare il problema del global warming prima che ci sfugga di mano. Bisogna spingere perché l’Italia sia all’altezza della sfida, non più la “maglia nera “ dell’Europa, paurosa e pigra, ma un Paese finalmente coraggioso e lungimirante, che trovi, in un New Deal verde e in un’azione comune tra istituzioni, imprese e  società, nuovo slancio economico, industriale e tecnologico.
Non bisogna necessariamente aspettare un grande piano nazionale varato dall’alto: può darsi che con questo governo non ci sia. La terza rivoluzione industriale si può cominciare mettendo insieme gli sforzi e i progetti di tanti. Di imprenditori che capiscono, come hanno fatto i loro colleghi tedeschi e nonostante le posizioni della Confindustria della Marcegaglia, che le battaglie di retroguardia sono perdenti. Di Regioni e Enti locali che varano autonomamente Piani energetico-climatici che prevedano per il proprio territorio il rispetto degli obiettivi europei al 2020. Da questo punto di vista è importante che Claudio Burlando, sul Secolo XIX, abbia scritto che “la riconversione ecologica in campo industriale e energetico” è “una scelta strategica vincente per il futuro della regione”. La politica, in crisi profonda anche in Liguria, acquisterebbe forza e credibilità da un confronto per le elezioni regionali che metta al centro i grandi cambiamenti necessari per imboccare una nuova modernità non distruttiva dell’ambiente e per dare risposte efficaci ai rischi di collasso dell’economia.

Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale allo sviluppo nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche)

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