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Riformismo contro classismo: è qui la politica

a cura di in data 6 Agosto 2008 – 10:03

Il  Secolo  XIX – 6 agosto 2008 – Quando sento parlare i dirigenti del  Pd o navigo nei suoi siti  mi capita spesso di sentir inneggiare al riformismo. Il Pd è un partito riformista, cioè -par di capire- ragionevole, innovatore, modernizzatore, aperto, democratico, liberale, meritocratico, interclassista…Che dire? Sono stato riformista nel Pci e nel Pds, quando il termine era osteggiato dai più, e poi testimone del progressivo svaporamento di una parola che indicava un’esperienza politica che, in polemica con  l’antagonismo radicale, si proponeva di rendere più giuste le condizioni di vita del mondo del lavoro, in un rapporto sempre teso tra politica ed economia, tra democrazia e mercato.
E’ con il crollo del muro di Berlino che tutto cambia: c’è stata la crisi non solo delle idee dei vinti (il comunismo) ma anche delle idee dei vincitori (il riformismo), e ne sono originati pragmatismo e frammentismo: l’assenza o la povertà della cultura politica e del dibattito intorno a ideali e a visioni della vita. Il neoliberismo da allora imperante ha imposto un’altra versione del riformismo: ciò che era capacità di incidere sui modelli di sviluppo per conquistare una sempre maggiore giustizia sociale diventa adattamento della politica alle logiche del mercato globale.
Ma ora i tempi stanno nuovamente cambiando. Il neoliberismo è messo in discussione anche da tanti suoi sostenitori di un tempo. Ritorna il tema della regolazione del mercato, perché una crescita senza regole aumenta le disuguaglianze sociali, distrugge la natura, aggrava il dramma del sud del mondo. E il riformismo svaporato degli anni novanta, incarnato dalla “terza via” di Clinton e Blair, ha dato tutto quello che poteva dare. Già in crisi da tempo, questo modello appartiene ormai al passato, dopo la sconfitta di Hillary e la parabola sempre più discendente di Gordon Brown .
Questa mitologia al tramonto va sostituita con una ideologia, una visione del mondo e della storia, una carta d’identità di un nuovo riformismo che dica con chiarezza che cosa intende riformare. Ha ragione Pierluigi Bersani: questa storia che le ideologie sono finite è sbagliata. Il berlusconismo e il leghismo che cosa sono, se non ideologie? E’, questo, il tema di fondo per il Pd: quale funzione nella società e, quindi, quale ideologia, quale  riformismo. Gli elettori del Pd e del centrosinistra -delusi, non rassegnati- sono disponibili ad affrontare la traversata del deserto ma vogliono che le si dia un senso: che cosa vogliamo, quali valori e interessi esprimiamo.
La questione centrale è la rimozione, in tutti questi anni, del peso decisivo dell’economia industriale e della centralità del lavoro operaio e dipendente, che ha finito per rivolgersi, per delusione  e rabbia, alla destra populista. Ma un partito riformista non vive senza un radicamento nel mondo del lavoro, senza porsi il tema della lotta alle crescenti  disuguaglianze sociali.
Oggi la crisi italiana coincide con quella della capacità d’acquisto di lavoratori e pensionati e di conseguenza del mercato interno, una crisi aggravata dalle politiche di svalutazione del lavoro e di attacco al welfare del governo Berlusconi.
Prosegue la profonda redistribuzione della ricchezza a danno del reddito fisso e a favore di profitti e rendite: è stato calcolato che se i rapporti tra capitale e lavoro fossero ancora quelli di vent’anni fa, i lavoratori dipendenti avrebbero 120 miliardi in più, 7000 euro in più l’anno per ciascuno. Se questa è la realtà, “è chiaro -come scrive Alfredo Reichlin- che chi dirige il Pd deve avere un’idea meno vecchia e semplicistica delle virtù del mercato” e riprendere nei tempi nuovi il filo di un riformismo dell’avanzamento sociale come quello di inizio secolo o del dopoguerra.
Un riformismo che coniughi la difesa delle parti più deboli della società con una prospettiva per il Paese, che rappresenti anche quei lavoratori autonomi, imprenditori, professionisti che non pensano che siano valide le ricette dell’evasione fiscale, delle corporazioni egoiste e immobili, del fare da soli, per vincere le sfide della competitività.
Quello di Berlusconi è un modello classista minoritario, a cui contrapporre un disegno alternativo che parli a un arco ampio di forze sociali: un progetto per l’Italia capace di tenere insieme lotta agli sprechi della spesa pubblica, sviluppo e giustizia sociale. Senza questo disegno di grande respiro politico crescerà l’antipolitica, più che il consenso a un modello berlusconiano che non funzionerà. E la democrazia sarà sempre più ferita.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale allo sviluppo nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).

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